di Emilio Maggio e Massimo Filippi

«Non voler dire, non sapere quanto si dice, non poter dire quel che si crede di voler dire, e sempre dire, o quasi, ecco quel che conta non perdere di vista». Questa frase di Samuel Beckett è tratta dal romanzo Molloy ed è di un’attualità sconcertante soprattutto per quanto riguarda la questione dello sfruttamento animale. Oggi, infatti, il senso comune antropocentrico e specista, risultato di ideologie e prassi che sanciscono la presunta naturalità del dominio dell’Umano sul resto del vivente, è sempre più messo in discussione da proposte teoriche e da movimenti politici che si oppongono alla ragione del neoliberismo capitalista che, seppur partendo da prospettive diverse, cominciano, non senza fatica e incomprensioni, a entrare in un proficuo processo di ibridazione (auto)trasformativa.

Il docufilm Food for profit di Paolo D’Ambrosi e Giulia Innocenzi si colloca in questo spazio-tempo, uno spazio-tempo gramsciano in cui tutto sembra essere perduto e che, proprio per questo, impone la necessità di ricominciare, uno spazio-tempo in cui la ri/produzione neoliberista mostra il suo volto più violento e aggressivo nei confronti di tutte le soggettività subalterne, tra le quali, piaccia o meno, non è più possibile escludere gli animali non umani. Il lavoro di D’Ambrosi e Innocenzi ha il merito di far luce, con grande coraggio e determinazione, sull’intreccio tra gli enormi interessi economici dell’agribusiness, dei suoi referenti politici e delle lobby che popolano i palazzi di Bruxelles e la turpitudine insostenibile che struttura in modo tragicamente inflessibile e capillare l’allevamento e la macellazione.

Il valore controegemonico di Food for profit, tuttavia, non si ferma qui e si arricchisce di almeno altri due aspetti. Il primo: la capillarità con cui Mescalito Film, società di produzione e distribuzione indipendente, sta presentando la pellicola su tutto il territorio nazionale, prescindendo da qualunque forma di “gerarchia culturale” nella scelta delle sale di proiezione, prevedendo il coinvolgimento sia di strutture a tecnologia riprovisiva avanzata sia i luoghi tradizionalmente ospitali nei confronti delle produzioni “dal basso”, quali associazioni culturali territoriali e centri sociali.

Secondo: la capacità di ibridare le potenzialità comunicative della moderna inchiesta giornalistica modello Report – come è noto, Giulia Innocenzi ha fatto parte della redazione di Announo, programma televisivo che ha condotto insieme a Michele Santoro – con le immagini “catturate” dagli attivisti e dalle attiviste di Essere Animali nelle loro incursioni negli allevamenti e nei mattatoi. Con questi strumenti, Innocenzi si fa strada tra – e ci conduce dentro – i meccanismi e i luoghi del potere delle istituzioni europee, mettendo in scena l’osceno: la disinvoltura con cui politici corrotti e spietati lobbisti della carne non sono in grado di stupirsi – tutt’altro! – neppure di fronte a quelle che potremmo definire delle tavole di Rorschach disegnate appositamente per vedere fino a che punto sono disposti a spingersi pur di difendere gli interessi dell’industria di cui fanno parte, tavole che esibiscono progetti aberranti, quali la “creazione” di maiali a sei zampe o di mucche con due uteri, volti a incrementare ulteriormente la ri/produttività degli allevamenti intensivi, in un crescendo che supera perfino la visionarietà del Lanthimos di Povere creature.

Come le attiviste e gli attivisti entrano nei luoghi dell’eccidio industriale per riprendere l’irrappresentabile – i miliardi di viventi che quotidianamente vengono sacrificati sull’altare del “libero mercato” della carne –, così Innocenzi viola l’irrappresentabile logica giustificazionista che quel massacro normalizza e naturalizza. Senza dimenticare che la giornalista già in passato si era introdotta sotto copertura nel più grande allevamento di maiali al mondo e ne aveva mostrato tutto l’orrore in una puntata di Report dello scorso anno: un grattacielo di 26 piani – vi ricordate di Horkheimer? – eretto a pochi chilometri da Wuhan e in cui sono stipati più di un milione di animali.

Dal Polesine alla Murcia in Spagna, passando per la Germania e la Polonia, gli allevamenti intensivi di polli, maiali e mucche che appaiono sullo schermo in una sequenza che toglie letteralmente il respiro sono un esempio lampante di quello che Nicole Shukin in Capitale animale definisce la doppia funzione del rendering che presiede alle logiche dell’attuale sfruttamento degli “animali da reddito”: una materiale che prevede l’utilizzo totale della “materia prima” e una simbolica che magicamente fa scomparire la violenza intensiva del sistema dentro le immagini edulcorate della pubblicità e delle leggi del “benessere animale”.

Food for profit, risultato di cinque anni di lavoro e coordinato dalla LAV, riesce a mettere in relazione lo squallore di tutti gli allevamenti da un lato con la violenza perpetrata su lavoratori/lavoratrici dell’industria della carne, su consumatori/consumatrici, sui territori e sulla Terra e dall’altro con l’articolato biopotere dei cacicchi e dei capibastone che ci “rappresentano” al Parlamento Europeo, rendendo evidente che i dispositivi di classe, genere, razza e specie, tra gli altri, o si decostruiscono assieme o non possono che continuare a ri/produrre la miseria materiale e simbolica che stiamo già vivendo a temperature sempre più incandescenti.

Se pensiamo che le razze domestiche degli animali sono il prodotto di una selezione ri/produttiva avvenuta tra il XVII e il XIX secolo, la divisione biologica del lavoro non umano corrisponde pienamente allo sviluppo del capitalismo e dei suoi meccanismi di cattura escludente e di esclusione inglobante che non hanno mai smesso di far leva su processi di animalizzazione, processi a cui anche gli animali non umani sono (stati) sottoposti fin dentro le pieghe più intime della carne.

 

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