Quella siccità profonda dentro di noi
di Pier Aldo Rovatti
Ogni fine d’anno tentiamo di guardare dentro noi per fare una specie di bilancio: vorremmo sapere come stiamo e dove stiamo andando, un momento di riflessione non così facile, spesso increspato da preoccupazioni di ogni genere. Per quanto strana, l’espressione “secchezza d’animo” è molto pregnante: forse caratterizza attualmente una nostra generale condizione.
Come se qualcosa, dentro di noi (è questo che di solito intendiamo con la parola “animo”, all’apparenza vaga ma che viviamo in modo concretissimo), si fosse sempre di più annodato, stretto, fin quasi a toglierci il respiro. Forse è proprio il termine “secchezza” che descrive questa sensazione di incapsulamento, di progressiva chiusura.
Di solito attribuiamo la siccità a quanto accade fuori, nel mondo esterno, nei territori che degenerano, in un intero pianeta a rischio di catastrofi climatiche. Ma non è solo il pianeta che si contorce, siamo anche noi stessi che avvertiamo con sempre maggiore evidenza di subire un processo di prosciugamento interiore che ci fa stare sempre peggio e al quale avvertiamo di dover reagire senza perdere altro tempo.
Ho l’impressione che ciascuno, all’interno della propria esperienza personale, sappia bene che cosa significhi e quanta sofferenza si porti dietro la crescente siccità d’animo: non abbiamo bisogno del cosiddetto esperto (in certi casi preziosissimo) per riscontrare uno stato d’animo così palese e diffuso, possiamo, anzi dobbiamo, provare a descriverlo a noi stessi nei suoi sintomi che toccano insieme il corpo e la mente di ognuno trasmettendoci, innanzi tutto, una intensa sensazione di tristezza.
Stiamo diventando, tutti quanti, più tristi nonostante occasioni di “divertimento” ci vengono offerte a ogni angolo di strada, a ogni contatto con il mondo mediatico e digitale. Ho messo tra virgolette la parola divertimento perché abbiamo tante ragioni per non fidarci di una simile offerta, che ha più l’aria di allontanarci dal punto cruciale piuttosto che aiutarci a penetrarlo e a combatterlo.
La nostra interiore siccità non si lascia distrarre, se non per pochi istanti, da un addormentamento tecnologico come quello che oggi sembra appunto la medicina più efficace di cui disponiamo contro la tristezza. Come temiamo in tanti, non sembra questa però la strada per dare aria e acqua a un animo rinsecchito. Ma che cosa potrebbe allora aiutarci? Intanto – direi – quella consapevolezza critica e autocritica che stiamo smarrendo ogni giorno di più. Mi rendo conto che quando pronunciamo una frase come “consapevolezza critica e autocritica”, chi la ascoltasse potrebbe commentare con un’alzata di spalle, come dire “bum e poi?”.
Infatti, gli “e poi?” qui si affollano, anche se di solito non troviamo neppure la pazienza di prenderli seriamente in considerazione. Eccoci immersi nel punto cruciale: semplicemente cancelliamo noi stessi nel preciso momento in cui non riusciamo a fermarci un istante perché siamo già passati oltre. È davvero così difficile riguadagnare qualcosa di quell’esercizio della pausa ormai sempre più dismesso e dimenticato da ciascuno di noi? Sì, sembra che sia diventato qualcosa di impraticabile per la sua manifesta inutilità: non abbiamo tempo da perdere in atteggiamenti improduttivi!
Ma è un po’ farneticante convincersi che la partita sia chiusa: spazi per trattenere la frenesia del tempo che non si deve perdere (ahi, Proust!) forse sopravvivono e noi dovremmo tentare di salvarli se davvero vogliamo impedire il completo rinsecchimento del nostro animo. “Autocritica” può restare un parolone da intellettuali che se la raccontano tra gli sghignazzi dei più, ma potrebbe anche sciogliersi in una quotidianità maneggevole, capace, se non di salvarci da una totale avidità, almeno di deviare un poco quegli sguardi avvizziti che ormai sono diventati normali: farli ritornare da dove partono per tentare di mettere in dubbio proprio quel punto di partenza.
Per capirci, sembra che nessuno voglia più discutere (e dunque criticare) questo punto di partenza. Se ciò accadesse, ci figuriamo un disastro, una specie di perdita di equilibrio della nostra soggettività, una incapacità di sentirci apprezzabili. Il dubbio su di sé equivarrebbe al dichiarare di non essere più in grado di coprire un ruolo, di non avere più un’identità precisa. Se, invece, per quel minimo che resta praticabile, ci aprissimo a un simile dubbio, chissà, potremmo anche riscoprire almeno delle caratteristiche che la nostra devastante secchezza si è mangiata, per esempio il piacere dell’ironia rivolta a noi stessi, la reintroduzione nella vita quotidiana di una dimensione ludica di genere gratuito, e tante altre piccole e grandi dimensioni del vivere che stiamo perdendo ogni giorno che passa, convinti che siano inutili e ci facciano perdere solo del tempo.
La secchezza d’animo che ci sta consumando è davvero difficile da combattere: se vogliamo farlo, dobbiamo cambiare un poco l’idea stessa che abbiamo di noi, accorgendoci che non è l’unica che inevitabilmente possiamo avere. Oltre a tutto, se procediamo ciecamente sulla strada abituale, senza farci tanti problemi, come sta accadendo, che ne sarà del nostro rapporto con gli altri? Resterà solo un rapporto di facciata, che si illude di nascondere la secchezza non impegnandoci più di tanto? (Ed ecco l’altra faccia del disastro che stiamo vivendo).
[Pubblicato nella rubrica Etica minima, “Il Piccolo”, 30 dicembre 2022]
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