di Pier Aldo Rovatti

 

Attaccando le cosiddette élite e prendendo le parti del cosiddetto popolo, Alessandro Baricco ha innestato una discussione vivacissima sull’onda del clamoroso successo del suo libro The Game. Tuttavia, se pochi si sono davvero dissociati dalle sue analisi sul mondo digitale, molto approfondite, molto chiare, scritte con un linguaggio capace di arrivare a tutti, non poche perplessità si sono levate a proposito delle pagine – diciamo – “politiche” pubblicate su “la Repubblica” dello scorso 11 gennaio. A cominciare proprio da cosa dovremmo intendere per “élite”. Qui il discorso si fa un po’ meno chiaro, alquanto sfumato, esposto a qualche sospetto di genericità.

Vado dritto al punto: per élite si intendono le classi dirigenti e coloro che detengono di volta in volta il potere economico e/o politico, oppure questa parola francesizzante (ma con un sapore antico) è il “vestito” che facciamo indossare agli intellettuali, cioè a coloro che si elevano (o pretendono di elevarsi) sopra la massa meno colta, di solito per tentare di illuminarla ed eventualmente guidarla? Propenderei per la seconda alternativa, pensando al ruolo stesso che Baricco impersona nella sua narrazione, visto che afferma di appartenere anche lui al gruppo di soggetti che definisce élite.

Per esprimermi alla Baricco, mi chiedo innanzi tutto quale sia lo storytelling che caratterizza questo gruppo. Si tratta di un insieme molto composito e diseguale: bisogna allora distinguere perché, se lo storytelling è apparentabile a un vestito, gli abiti che gli intellettuali indossano oggi sono di foggia assai diversa l’uno dall’altro. Alcuni sembrano vecchi e quasi importabili, altri appaiono occasionali e modaioli, inoltre un buon numero di essi sono maschere abbastanza fasulle.

Dunque, una volta che ci fossimo liberati dall’equivoco che queste élite non si misurano tanto sul potere del denaro quanto, piuttosto, sull’efficacia delle idee, del pensiero e insomma della cultura che riescono a produrre e a diffondere, ci troveremmo di fronte al compito non facile ma necessario di esercitare un lavoro critico che separi – per dir così – il grano dal loglio, la buona cultura da salvare e valorizzare da quella, scaduta e avariata, da buttare via. Ovvero: l’élite da promuovere dall’élite da bocciare.

Se Baricco, come afferma, sa di essere uno dei soggetti dell’élite attuale, non riesco a pensare che vorrebbe rottamarsi, credo piuttosto che desideri dare un esempio positivo di cultura attraverso la sua attività di scrittore e pensatore. Ma scendiamo nel dettaglio specifico dei suoi interessi e facciamo il caso dei social. Lui insiste sulla rilevanza culturale del “grande gioco” digitale, reagendo giustamente a quegli intellettuali che si arrestano a un diniego pregiudiziale, e non può non condividere che dei social si può fare un uso cattivo, anzi pessimo. Abbiamo sotto gli occhi il tweet (osceno) con cui il nostro vicesindaco si è gloriato di avere sbattuto nella spazzatura le coperte di un clochard, ma ogni giorno, qui e altrove, i detentori del potere politico praticano un simile uso.

Morale, c’è una dura battaglia culturale da combattere (e intanto da ingaggiare) contro ogni tipo di falso intellettuale e di falsa élite, una genìa che sta moltiplicandosi in modo impressionante. E come combatterla, questa battaglia? Snidando le cattive élite, facendo cadere più maschere possibili, utilizzando anche il delicato strumento dell’autocritica (nessuno di noi può infatti pretendere di dichiararsi immune nel cinismo generalizzato). Insomma, impugnando l’arma del pensiero critico, un’arma spesso spuntata o lasciata nel dimenticatoio perché considerata vecchia e inservibile.

Un compito davvero molto arduo: basta pensare che con grande disinvoltura noi, normalmente, adoperiamo l’aggettivo “falso” incollandolo a ciò che non ci piace (una “falsa” élite, una “falsa” cultura, dei “falsi” intellettuali). Ma dove abita il “vero”, quali sono i modi e il luogo della supposta verità? Possediamo solo qualche briciola di risposta a quest’ultima domanda: sulla polpa della questione siamo parecchio in ritardo mentre il pensiero unico sta mangiandosi tutto. Come se ci fosse un’intera cultura critica da mettere in piedi, e mi pare che lo stesso Baricco stia in fondo dicendo proprio questo, magari con una verve un po’ più ottimistica.

[uscito su “Il Piccolo”, venerdì 18 gennaio 2019]

3 Responses to Parliamo di élite o di intellettuali?

  1. Maurizio says:

    condivido questo pensiero gli intellettuali sono cambianti non esercitano il loro pensiero ma il presupposto di averlo, in passato si riconoscevano dalle parole dalle frasi dal pensiero sviluppatosi in una analisi studiata e costruita nell’intento della chiarezza e nella fatica che il dubbio fosse sempre a portata di penna .Corriamo troppo veloci volendo rincorrere le nostre illusioni .

  2. Il problema non è quello di sapere chi è l’élite (l’élite è una funzione storica legata al potere) o chi è l’intellettuale, ma quello di sapere chi sono gli intellettuali?:
    -sono i pensatori pagati per produrre libri di successo (vendibili) che soddisfano e persuadono le masse incolte (non per colpa loro)?;
    -sono i docenti universitari il cui ruolo è stato acquisito sappiamo come (nepotismo, servilismo, politicismo), ed il cui curriculum (titoli e pubblicazioni) nessuno controlla o interessa controllare?;
    -sono i pensatori professionisti dei media (generalmente TV) che hanno come fine incrementare l’ascolto (Audience) necessario per la gestione economica della pubblicità?;
    -sono i pensatori politicizzati specialisti dell’appropriazione dei voti elettorali e del controllo delle masse?.
    Esiste, a mio avviso, un’altra forma di “intellettuale”, quella dell’intellettuale che usa il cervello, non per contribuire a difendere questo o quel potere, questa o quell’istituzione o organizzazione sociale, ma per contribuire al progredire della “conoscenza”. L’unico modo per essere “utili” in questo mondo umano è far avanzare la cultura che non è citare questo o quell’ autore, questo o quel libro, ma che è il modo umano (la cultura è un fenomeno umano) di comprendere la natura (animale uomo compreso) per sopravvivere agli eventi (terremoti, uragani, guerre suicide, scompensi sociali, …) che fanno sorridere o rabbrividire confrontandoli alle aspirazioni di potere dell’uomo cieco che si crede immortale e che è concentrato illusivamente solo su se stesso. Un’umanità che si sotto divide in nazionalismi (italiani, francesi, tedeschi, americani, giapponesi, …), un’umanità che sfrutta la misera di alcune popolazioni (vedi il Congo) per alimentare le proprie risorse energetiche usate per riempire il ciclo del signore “denaro” simbolo del potere in un mondo economizzato, un’umanità che si nasconde sotto le religioni o sotto ideologie vuote, ha bisogno solo di cultura (quella vera che è “conoscenza”) che è l’unica forma “utile” ai fini del cosiddetto, se esiste, “progresso civile”.
    Questa forma di intellettuale per fortuna esiste ed è dovunque, ed è quella che costruisce la storia.

  3. Maurizio says:

    La conoscenza credo sia la parte essenziale in un epoca dove tutto sembra cadere nella spirale del nulla dove chissà perché l’intellettuale onesto sia così raro cosa manca perché si possa rendere visibile : troppo/tutto/ o solo un illusione che possa essere vera?.

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