Narrare un soggetto.
Nota su “Palomar” di Italo Calvino

di Pier Aldo Rovatti

 

Nel momento in cui la filosofia si trova a rispondere a un suo proprio bisogno di aprirsi alla “narrazione”, la narrazione di un’esperienza di pensiero – come è il caso di Palomar di Italo Calvino (Einaudi, Torino 1983) – può essere un sintomo e un felice incontro. Questo incrociarsi di cammini ci può forse aiutare a disegnare meglio alcuni tratti non della o di una qualsiasi esperienza di pensiero, ma precisamente del nostro attuale orizzonte, nel quale – poiché non possiamo più fingere a noi stessi di non sapere quel che ormai sappiamo – certe linee si sono interrotte e altre risultano definitivamente bloccate e impraticabili: al punto che dobbiamo ammettere che la questione del come procedere sia quella sulla quale maggiormente siamo all’oscuro.

Individuare qualcosa di questa nostra condizione ha a che fare con il narrare? È una domanda particolare e tuttavia non trascurabile che ne suscita molte altre: in primo luogo come si debba prendere e utilizzare l’idea stessa di narrazione che a sua volta presenta molti lati.

Palomar, intanto, non è il racconto di un congedo. Le ultime pagine non devono sviarci anche se in esse il tema della morte nasconde – come vedremo – un piccolo inganno narrativo, Voglio dire che sbaglieremmo se leggessimo questa sequenza di episodi brevi e brevissimi ascoltando troppo i suoni di rassegnazione di un’esperienza che fallisce. Al contrario, perché non leggervi qualcosa come un annuncio, cioè un inizio, che, per non essere un falso inizio o la maschera di una semplice ripetizione, dovrà essere ironico, basso, senza nessuna retorica di verità?

Infatti, se si vuole ricominciare a pensare in una scena tormentata come la nostra, bisognerà almeno allontanare il pathos del vero e farlo diventare come un alone remoto, un luogo che non potremo fare a meno di rivisitare di tanto in tanto, ma appunto solo di tanto in tanto, come le teche dei rettili sonnolenti e disperati che un giorno il personaggio di Calvino va a vedere.

Seguire la pista dello scacco della conoscenza e di qui arrivare allo scacco dell’io – ancora al finale del romanzo dove Palomar sperimenta mentalmente la possibilità di “essere morto” – potrebbe sembrare il percorso più ovvio, già noto e dunque più rassicurante, della crisi di tutto.

Ma qui si racconta il tentativo di descrivere un modo di rivolgersi altrimenti alle cose e all’io che le guarda, il tentativo appunto di indicare una esperienza di pensiero raccontandocene le peripezie e facendoci vedere che queste peripezie non ne sono l’accidente ma forse proprio la caratteristica principale. Palomar è un personaggio un po’ comico e talora si rende conto di apparire anche un po’ stupido. Potrebbe sembrare del tutto sproporzionato richiamare alla mente i grandi esempi di apprendistato dell’io che, da Descartes a Goethe e fino a Proust, la nostra cultura ha immagazzinato come le forme classiche in cui il soggetto si è cercato nella propria solitudine, ha tentato di scandire le tappe fenomenologiche della propria Bildung per poi, senza più certezze razionali e oggettive, mettersi ancora titanicamente come memoria di fronte al mondo. Tuttavia è sempre questo il motivo: se ricompare in un dettaglio, forse anche tale osservazione – il fatto che riviva lateralmente in un piccolo esempio – conviene alla nostra condizione.

Il movente è di nuovo: cerchiamo di arrestarci per un momento, prendiamo una distanza, vediamo se è possibile sospendere la nostra presa diretta con il mondo, se c’è ancora la possibilità di un’esperienza “estatica”, di un raccoglimento fruttuoso. E nuovamente già solo questa spinta dell’ipotesi contiene un’affermatività. Possiamo farlo: ma già solo il sapere di esserne in grado presuppone che si arrivi a qualcosa, che qualcosa come una venatura di “autenticità” sia a portata di mano.

Palomar, l’“osservatorio”, ha però solo questo incerto sapere da mostrare. Nessuna promessa di un sapere certo lo sospinge a neutralizzare lo sguardo ovvio sulle cose: “contare i fili d’erba è inutile, non s’arriverà mai a saperne il numero”. L’io “nuotante” non potrà più, d’altronde, presupporre una certezza definita di sé: né specchio del mondo e neppure finestra da cui il mondo osserva se stesso. “Io più il mondo meno io”, calcola Palomar, ma poi si ritrova ancora all’ingresso del problema. Cosa è questo soggetto che prima si è aggiunto e poi si è tolto? Sappiamo soltanto che ci approssimiamo ad esso attraverso un “sottrarre”. Attraverso un indebolimento delle nostre pretese, di quell’io pretenzioso che vorrebbe possedere il sapere come la propria e unica ricchezza.

Ma è davvero “povero” questo personaggio che ha risolto così di impoverirsi? Lo sguardo che ha scelto di “veder meno”, chiamando l’immaginazione e la fantasia a indebolire la pretesa di contare i fili d’erba, è davvero opaco e corto? Palomar si mette a osservare le stelle per ricavarne un sapere instabile e contraddittorio. La comicità della filosofia si conferma: ora l’astronomo-filosofo, di cui tutte le servette trace hanno sempre riso, non cerca neppure una chimerica profondità da scrutare. Verifica solo la inesauribilità della superficie e la debolezza della propria vista. Un volo d’uccelli gli dà la vertigine. Lui stesso, poi, ha l’impressione che le sue assomiglino alle “convulsioni di un demente”.

Palomar fa delle esperienze minuscole, si direbbe qualsiasi. Comunque, in ciascuna, sa inserire una pausa di pensiero: così ogni esperienza, il fischio di un merlo o un’onda, una macelleria o i tetti diseguali di una città, prende a parlare e può diventare straordinariamente intensa. Meglio: Palomar si predispone all’ascolto, lascia che le cose, anche le più banali, si esprimano da sole, dopo avergli ammiccato. Non scambiamolo per uno strumento di registrazione. Quando fosse così, Palomar sarebbe già morto. Non è certo neutrale, e le cose – lui lo sa bene – è come se parlassero: in realtà rispondono a domande precise, però del tutto inconsuete, perché non sembrano già contenere la risposta.

Questo non aver niente da rispondere dà alla richiesta un’apertura insolita. In essa Palomar riesce a mantenersi fluttuando: non basta mettere una gran varietà di modelli al posto dell’armoniosa figura geometrica, e perfino una memoria ammobiliata solo da frammenti di esperienza non è abbastanza sgombra. Così preferisce tenersi “allo stato fluido”. Rilassamento che richiede però sforzo ed esercizio: l’io “nuotante” non è un vivere soprapensiero, è al contrario una faticosa esperienza di pensiero. Mettersi in grado di accogliere come autentico ciò che è instabile. Passare attraverso questa specie di “demenza”. Sperimentare la vertigine di pensarsi dal punto di vista dell’uccello e di figurarsi così un diverso sguardo: “hanno il vuoto che s’apre sotto di loro ma forse non guardano mai giù, vedono solo ai lati, librandosi obliquamente sulle ali”. Sapere che c’è il vuoto ma non guardare mai giù: simboli che non si sa cosa vogliono dire, un copertone in mano al gorilla albino, l’ordine degli squamati, il mondo-scoglio e l’umanità-sabbia. Guardare lateralmente in modo obliquo: ma la natura esiste? “La sensazione che sei qui ma potresti non esserci in un mondo che potrebbe non esserci, ma c’è”. Interrogare piuttosto il silenzio e leggere nella pausa e nella anomalia – “e se fosse nella pausa e non nel fischio il significato del messaggio?” – la forma inusitata del proprio ondeggiare. Come nel trapestio disarmonico della giraffa: “forse perché lui stesso sente di procedere spinto da moti della mente non coordinati che sembrano non aver niente a che fare l’uno con l’altro, e che è sempre più difficile far quadrare in un qualsiasi modello di armonia interiore”. E, in conseguenza di tutto ciò, sapere che prima di agire e di parlare bisognerebbe mordersi tre volte la lingua.

L’esperienza di pensiero di Palomar non è un apprendistato che progredisce secondo scansioni razione, tappe logiche di una dialettica interiore o di un viaggio organizzato dello spirito, mappa orientata secondo direzioni e parametri. Nel racconto di tale peripezia non vi sono tappe obbligate o anche solo previste, né un qualunque progetto che dovrà dispiegarsi. I pezzi o frammenti della peripezia non sono neppure destinati ad accendersi della luce improvvisa capace di dare il segno dell’eternità al particolare che sembra irrilevante. Nessun definitivo ritrovamento è più atteso, ma non perché nulla possa più salvarci dallo sfilacciamento del senso. Anzi, senza dover risplendere come una pietra preziosa, e proprio per questo, ciascun frammento è già una scoperta. Insieme, i pezzi non compongono un tutto, ma una sequenza slegata, senza traguardi successivi, con la casualità, la sorpresa e la quasi ovvietà, appunto, di una peripezia. Senza necessità di unirsi, pure queste esperienze non cessano di annodarsi come le masse aeree dei volatili e si addensano come la sabbia umana richiamata dalla visita al sacro recinto di Kyoto. Se il fischio del merlo assomiglia a quello dell’uomo, se cioè da qualche parte si scopre un’analogia o un nesso, non è un motivo di rassicurazione: produce semmai l’angoscia di avere intravisto un ponte sull’abisso, angoscia da cui subito ci distogliamo abbassandola a stupore di fronte all’immagine di una pantofola spaiata acquistata in un esotico bazar che è lo ‘”pecchiarsi di passi zoppicanti da un continente all’altro”.

Dunque questa esperienza è uno zigzagare sulla stessa scena, un ripetersi della differenza, ma anche un tenere a distanza quel “grumo” intorno a cui comunque ci aggiriamo. L’io “nuotante” di Palomar non solo non raggiungerà la spada del sole, ma avrà sempre qualcosa da non raggiungere, una direzione possibile non prefigurata. Esso, però, indica un movimento e un equilibrio: il mantenersi del soggetto in una posizione tale che nessuna posizione sia più modello per le altre.

L’onda, le stelle, un fischio, un volo di uccelli, una distesa diseguale di tetti, un negozio di formaggi, una pantofola spaiata. Con lo stesso indice di dato elementare, semplice e possibile per ciascuno, natura e quotidianità cuciono l’esperienza di Palomar punteggiandola di metafore e di evocazioni. Sono metafore senza fondo che coabitano con un io fluttuante e ne sono la lingua. Vien voglia di ordinarle, classificarle: la natura, gli animali, gli oggetti della cultura. Anche lo stesso narratore vi accenna, timidamente, come a suggerire una seconda lettura più organizzata e non così spezzata. Ma perché – ci si può chiedere – una simile narrazione ha bisogno di far posto a qualcosa come una trama? Forse non è più necessario che si passi da un inizio (io, da solo, a guardare le onde) a una fine (io, con me stesso, nella riflessione, dopo le prove, con una storia già segnata, già avanti, io che muoio), da un più semplice a un più complesso. Forse, allora, anche il narrare ha un suo “grumo” da tenere a distanza, una destinazione che può sempre rivelarsi con il peso dell’inerzia, cioè un modello che attira. Le peripezie del pensiero di Palomar, la loro intrinseca narratività, ci devono anche mettere in guardia verso questo narrare una storia che pretende, da qualche parte, un capo e una coda.

Ecco, allora, probabilmente un altro motivo di interesse in Palomar: un conflitto, al margine, tra la narrazione dell’esperienza interna del personaggio, che scorre con una sua strana sensatezza su una superficie inesauribile saltando di metafora in metafora, e ipotizzando in questo modo un linguaggio, e la preoccupazione che gioca alle spalle del narratore di rendere comunque visibile un percorso compiuto, lo spostamento che è avvenuto da un punto all’altro, la storia come filo narrativo che sutura i salti.

In questo possibile conflitto si riconosce con interesse un pensiero che si rivolge alla narrazione come a ciò che gli manca e di cui sempre meno può privarsi, perché le parole della riflessione possano approssimarsi un poco al senso insolito di questo stesso pensiero. Infatti: un’esperienza di pensiero che miri senza pudore al “vero sentire” può fare a meno di narrarsi?

L’“io nuotante”, che è la figura che più mi ha colpito nel libro di Calvino, è un ibrido filosofico. Potremmo tentare di sganciare la metafora dal racconto, isolarla a quasi-concetto, ma sarebbe solo un’operazione a metà. Perché una metafora come questa resti viva e serva a descriverci l’esperienza cui miriamo, deve conservare il proprio orizzonte narrativo. La peripezia del soggetto non può restare un’enumerazione anche se di figure: dovrà avere il tessuto entro cui soltanto può essere riconosciuta come peripezia. Ma, appunto, la metafora – di cui la filosofia si è sempre servita e a cui è sempre più obbligata a rivolgersi – perde la sua vivacità anche ogni volta che la narrazione riprende a essere récit, racconto-svolgimento nel senso di Lyotard. Non è forse un “racconto” la Fenomenologia dello spirito? E non vi è una forma racconto in ogni saggio di filosofia, anche in quello che appare più rigoroso e deduttivo?

Sappiamo che, tra i temi che la filosofia ha oggi il compito di meditare, questo della narrazione pone domande cruciali. Perché la filosofia non è mai riuscita a spezzare questo legame, anzi lo ha ogni volta cercato, magari non esplicitamente? Perché proprio ora il filosofo deve incrociarsi con la forma narrativa? E poi gli interrogativi più difficili e decisivi: come è possibile realizzare questo incontro restando sul piano della riflessione? Quale è la narrazione che il filosofo sta cercando per descrivere la propria esperienza?

Queste domande configurano un compito incerto e contraddittorio: un imparare a guardare di lato, a non guardare nel vuoto pur sapendo che è lì sotto, e ciò nonostante un continuare a guardare, non abdicando al compito. Ci accorgiamo che tutti i problemi speculativi si raddoppiano come problemi di linguaggio filosofico. Se così non fosse, se non riuscissimo a tenerci in qualche modo in questo equilibrio, la viva metafora del narratore farebbe già stata svuotata del suo sapere nella pagina del saggio. In quel momento – come sappiamo bene – essa muore.

[uscito su “aut aut”, 201, 1984, pp. 32-37]

 

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