di Pier Aldo Rovatti

 

Come il pharmakon – insegnava Platone – può essere tanto una medicina che cura quanto un veleno che intossica (e noi oggi comprendiamo sempre meglio la verità di questo avvertimento), così la maschera è altrettanto doppia e infida. Ecco adesso, dovunque, a Carnevale, il rito festoso del mascherarsi e il piacere dello spettacolo corale dei travestimenti. Per qualche giorno abbiamo la libertà di sentirci e apparire diversi, belli o mostruosi, umani o extraterrestri, uno di un’epoca remota o uno di una dimensione fantastica e magari futura. Festa di bambini, che le scuole opportunamente promuovono, ma anche festa di adulti che desiderano alterare per un momento la routine del sempre uguale.

Valenti studiosi e pensatori hanno preso molto sul serio quest’antica voglia di mascherarsi e hanno spesso tessuto l’elogio del carnevale. Ogni volta che arriva si dice che è una festa in declino e forse destinata a estinguersi, tuttavia il carnevale sopravvive ogni volta a se stesso come se vi si riproducesse qualcosa che non sembra completamente risucchiato dal consumismo. Questo “quid”, che si mantiene in modo quasi anacronistico, consiste essenzialmente nel bisogno di modificare almeno un poco la propria identità quotidiana: nell’illudersi, nel giocare a essere qualcun altro o almeno a celarsi allo sguardo identificante di tutti i giorni, coprendosi il viso con una mascherina. Dietro all’innocente carnevale sta dunque una questione di enorme importanza: appunto l’esigenza di sfuggire all’omologazione, almeno di manifestare pubblicamente tale esigenza in maniera simbolica, parziale, residuale, ormai mercatizzata e svuotata quanto si vuole, comunque di tentare di farlo.

Ma allora quale sarebbe il veleno della maschera? Esso sta nell’ambivalenza del nascondersi, nel trionfo di un dispositivo sociale che, non per qualche giorno bensì per tutto l’anno, procede mascherato e tende ad assumere false fisionomie. Spesso, assistendo al normale spettacolo della politica, sembra di osservare un défilé di maschere e di volti contraffatti, al punto che verrebbe da dire “giù le maschere!”, “fateci vedere chi siete veramente!”.

La maschera diventa velenosa se si irrigidisce in una finzione: quando ciò accade, il gioco è finito, non ci si diverte più, o meglio: il divertimento diventa falso, un trucco per avere consenso, un volto sorridente e perfino esaltante per persuadere ingannevolmente, cosicché gli altri non riconoscano chi vuole trascinarli e le sue reali intenzioni. Quante volte capita che qualcuno scivoli giù dal piedistallo e si riveli ben diverso da quello che la sua maschera faceva intendere!

È chiaro che quando si ha qualcosa o molto da nascondere conviene indossare una maschera, e questo vale per tutti. Quando poi si hanno responsabilità pubbliche, quando si è potenti, questa maschera può diventare un veleno pericoloso. Si parla di continuo della necessità di lottare contro l’evasione fiscale: il grande evasore è uno che ha indossato una formidabile maschera per non essere riconosciuto.

È paradossale che per un verso vorremmo far cadere le maschere dell’ipocrisia e della truffa, mentre per l’altro verso ciascuno desidera di poter usare le maschere per avere più libertà ed evadere dalla propria angusta prigione individuale? Non lo è affatto, sempre che riusciamo a compiere un esercizio critico sul senso da attribuire alla maschera, distinguendo la maschera che produce un più di soggettività dalle maschere che ci bloccano e ci fanno restare immobili dove siamo. La maschera come gioco – un gioco molto difficile da giocare – che ci permette di alleggerirci e di imparare a uscire e a rientrare in noi stessi, dalla maschera che irrigidisce il nostro volto. Nei suoi limiti, il carnevale potrebbe anche essere un’occasione per farci capire questa distinzione e fornirci una qualche arma per combattere, o almeno per individuare le maschere sociali che ci avvelenano l’esistenza, maschere che introiettiamo anche senza volerlo, momento dopo momento, magari per scoprire un bel giorno che siamo diventati noi stessi una rigida maschera vivente.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 13 febbraio 2015]

Tagged with:
 

Leave a Reply

Your email address will not be published.