di Pier Aldo Rovatti

Forse vorremmo che l’allarme terrorismo venisse un poco silenziato, non per dare spazio ai bisogni materiali della vita quotidiana (che suscitano scarso interesse), piuttosto per rincasare nelle usate magagne della nostra vita politica: per rituffarci nell’infinito tormento dell’Italicum e nella concitata vigilia de pronostici su chi salirà al Colle, o solo per tornare a condividere i dolori del giovane Pd.

Beninteso, tutto questo ha una non piccola importanza. Ma la cultura televisiva ci bombarda mattina e sera, e non c’è italiano che ormai non sia edotto sulla terna dei favoriti nella corsa al Quirinale, che non conosca pieghe e contropieghe della battaglia per la legge elettorale, che ignori i pesanti malumori prodotti dalla minoranza dei democratici.

Il ritmo, il rullo della macchina dell’informazione esige varietà ed eventi da consumare velocemente. Tuttavia, la sirena di quell’allarme continua a suonare insistente nella testa delle persone e nella realtà delle cose, ed è difficile rinchiudersi dentro i fatti della cronaca domestica. Il mondo intero è in fibrillazione, lo sappiamo tutti, anche se ci stanchiamo di doverlo ricordare ogni minuto.

Più che una fibrillazione è ormai un panico diffuso, una condizione generalizzata di disorientamento alla quale tentiamo di contrapporre parole e discorsi che ci permettano intanto di nominarla, e nominandola di renderla più docile. Le parole che ricorrono sono “emergenza”, “sicurezza”, “garanzie”, e il discorso che le lega sembrerebbe essere il seguente: siamo in una condizione di emergenza che come tale autorizza l’eccezionalità delle risposte ma al tempo stesso comunica anche un’idea di transitorietà, come se si trattasse di un episodio. Questa condizione invita istituzioni e cittadini a mobilitarsi per difendere la propria sicurezza minacciata con ogni possibile strumento di controllo. Da tale mobilitazione, che non potrà che dar corpo a un qualche ridimensionamento delle libertà di ciascuno (compresa la libertà di espressione), dovrebbero discendere le garanzie necessarie al normale svolgimento delle relazioni sociali, in modo che non restino bloccate dalla continua paura dell’imprevisto.

Si tratta di un discorso che ciascuno dovrebbe far proprio nel nome, sottinteso ma centrale, della democrazia: un discorso che tuteli le libertà individuali però chiedendo a ciascuno un’autolimitazione delle stesse. In breve: le garanzie esigerebbero come necessaria contropartita la rinuncia a una porzione di democrazia, ma così il terrorismo avrebbe ottenuto, almeno in parte, ciò che si propone.

Pare che non si possa uscire da questo circolo vizioso, ma almeno parliamone esplicitamente e smascheriamo il non detto delle tre parole che ho richiamato. Emergenza significa anche un lasciapassare per intensificare il controllo e la sorveglianza che già permeano la società in cui viviamo; sicurezza è una parola-feticcio che copre una condizione generalizzata di insicurezza, essa pure da tempo esistente nell’attuale contesto sociale caratterizzato dalla precarietà; garanzia è, più che altro, una parola-placebo, una specie di bugia terapeutica che nasconde a fatica la verità di un allarmante deficit di diritti e appunto di democrazia.

È come se al cittadino che già vive in una condizione di democrazia molto imperfetta si chiedesse di renderla ancora più imperfetta rinunciando lui stesso a qualcosa.

Non so se esista un discorso diverso (mi dicono che a Parigi la gente, anziché annichilirsi, si è animata ridando vita a una quantità di problemi). Ma sarebbe già qualcosa togliere la maschera a quello che tutti quanti andiamo ripetendo senza pensarci troppo su. Espulsioni, controlli rigidi, allerta planetaria, sconfiggeranno il terrorismo? È un’esile speranza, ma – ci diciamo – che altro resta da fare? È comunque un fatto – da qualunque punto lo si guardi – che questo plus di sorveglianza (e di repressione) appare perfettamente in linea con la condizione reale della società contemporanea: non è uno scarto o un cambio di passo, ne è la prosecuzione, un possibile perfezionamento.

 

[uscito su “Il Piccolo”, 23 gennaio 2015]

 

 

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