di Pier Aldo Rovatti

“Brilla per la sua assenza” è un modo di dire molto diffuso. Lo si adopera per indicare che qualcuno è sistematicamente assente dal luogo nel quale dovrebbe svolgere il proprio ruolo.

In questi giorni di inizio anno occupa le cronache il caso clamoroso dei vigili urbani di Roma, di cui soltanto due su dieci erano al lavoro la sera del 31 dicembre, mentre tutti gli altri si erano dichiarati malati. È stata una curiosa coincidenza di attacchi morbosi o dobbiamo invece pensare che desiderassero anche loro festeggiare la simbolica nottata?

Qualcuno è arrivato perfino a sospettare che si siano messi d’accordo, il che ovviamente aggraverebbe l’assenza di massa dal lavoro. Resta, in ogni caso, che questo inabituale assenteismo ha brillato, eccome! Non è stata solo una normale assenza dal lavoro, essa è infatti più grave perché in questo caso si tratta di una funzione pubblica disertata proprio in un’occasione in cui sarebbe stata particolarmente utile per la città. Ancora più grave – voglio dire – degli episodi di assenteismo dal pubblico impiego che si sono registrati negli ultimi tempi anche qui a Trieste, quando si è scoperto che alcuni uscivano dal loro ufficio a piacimento e senza troppa ansia di nasconderlo, visto che erano giù al bar o nel ristorante accanto.

Il che ci fa fare una prima considerazione, quasi ovvia, e cioè che l’assenza viene generalmente vissuta come qualcosa di normale, senza tante preoccupazioni e quasi fosse una pratica legittimata dal “così fan tutti”, ma anche senza troppo curarsi dell’eventuale carico di responsabilità collettiva che il ruolo ricoperto dovrebbe portare con sé.

È infatti facilmente constatabile che qui l’assenza non viene in alcun modo occultata, anzi risulta sbandierata. Se ancora tale assenza “brilla” ai nostri occhi, sembra che emetta simile luminosità perché noi non siamo abbastanza smaliziati e stentiamo, per eccesso di ingenuità, a renderci conto di come vanno effettivamente le cose in una società ormai pervasa da ogni genere di cinismo e dalla conseguente indifferenza nei confronti delle responsabilità verso gli altri.

Da sempre, nelle scuole, c’è il registro delle presenze e delle assenze. La parola “assenza” comincia di solito ad abitare le nostre menti e a entrare nel nostro linguaggio proprio a partire dalle prime esperienze scolastiche, quando dunque eravamo molto piccoli ma già capivamo, o ci sembrava, che “presente” fosse una cosa buona e “assente” avesse invece un alone nettamente negativo, qualcosa da evitare e nel caso da giustificare nero su bianco con la firma di genitori o tutori (ricordo la fatidica e un po’ misteriosa formula “o chi ne fa le veci”). Intanto, a casa, quante volte sentivamo rivolgerci il rimbrotto “sei sempre assente” oppure “cerca di essere un po’ più presente”?

Per molti questo rimprovero, che spesso diventava un’opprimente litania, dava paradossalmente alla parola “assenza” e ai comportamenti che vi si legavano un colore meno negativo, quasi fosse un’esperienza da preservare. Quando poi arriva l’età in cui ciascuno fa ormai le veci di se stesso, oggi molto prima – direi – della soglia dei diciotto anni, non tutti appaiono disposti a riempire di positività la parola “presenza”. Che ci piaccia o no, viviamo in un mondo nel quale non è poi così vero che ognuno scalpiti per essere presente, sempre e comunque. Questo soggetto, impegnato ogni momento a dire “eccomi, sono qui”, a realizzarsi o solo ad apparire grazie alla sua presenza, si vorrebbe che fosse l’unico in circolazione, il solo accettabile, ma sappiamo bene che non è affatto così.

Di fronte a un insistito e ingombrante presenzialismo, che talora preme su di noi come un imperativo sociale, non sono pochi coloro che avvertono il fascino, magari discreto, dell’assenza, e sono forse gli stessi che neppure vorrebbero che la loro assenza brillasse troppo. Non solo per furbizia o per evitare di pagar dazio o, in breve, perché non vogliono avere alcuna responsabilità in prima persona, ciò che caratterizza in negativo e anche colpevolmente il menefreghismo attuale, ma anche perché non vogliono comparire sulla scena per una loro scelta di vita.

Questo non giustifica in alcun modo atti di assenteismo dal lavoro eclatanti e insopportabili come quello dei vigili di Roma o altri simili, evidentemente no. È solo un invito a riflettere al fatto che non basta girare la medaglia e santificare – come dire – il “presentismo” a valore indiscutibile, perché è assai facile che questo acclamato presentismo sconfini in quel presenzialismo che la politica, i media, insomma tutta la cultura “televisiva” oggi trionfante, agitano davanti ai nostri occhi alquanto perplessi come l’unico traguardo, esistenziale e perfino etico, degno di essere raggiunto.

[uscito su “Il Piccolo”, 9 gennaio 2015]

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