di Pier Aldo Rovatti

[articolo uscito su “Il Piccolo”, 6 dicembre 2013]

L’allarme è stato dato qualche giorno fa dallo stesso rettore dell’università di Trieste. Un taglio secco al finanziamento ordinario erogato dal ministero, mentre ci si aspettava tutto il contrario, e cioè un’apprezzabile inversione di tendenza. Questa notizia ha messo in luce ancora di più un inceppo della nostra università: la scarsità dei docenti. Un’entropia che si è fatta insopportabile al punto che si teme che alcuni corsi di studio importanti, specialmente nel settore umanistico, potrebbero perdere i requisiti minimi per continuare a esistere.

Su questo giornale, Gabriella Ziani ha già fornito ai lettori un quadro articolato della gravità della situazione locale. Non ho nulla da obiettare né da correggere rispetto a quanto è stato scritto. Vorrei solo avvicinare lo sguardo alla questione, introducendovi qualche altro elemento e soprattutto osservando le cose più da vicino, con gli occhi degli studenti che sono poi quelli che fruiscono del servizio pubblico e in certa misura lo finanziano pagando le tasse.

Quello che interessa agli studenti è che venga loro offerta una didattica culturalmente e scientificamente significativa, ricca, articolata e di alta qualità. L’organizzazione della ricerca è un fattore a propria volta essenziale, ma innanzi tutto lo sguardo degli studenti è rivolto all’offerta didattica che deve essere buona e completa. Se la didattica è carente, se ci sono dei buchi culturali, se l’offerta è scarsa e discutibile, significa semplicemente che l’università non mantiene le sue promesse. Gli studenti valutano se il docente è capace e ha davvero qualcosa da dire. In genere sono poco interessati ai sussulti delle strategie universitarie, ai decrementi del budget e al trend complessivo degli affari istituzionali. Dovrebbero esserlo di più? Certamente. Tuttavia come criticarli se hanno soprattutto a cuore la quotidianità delle loro vite di studenti?

La “mortalità” dei docenti pesa con evidenza su tutta la questione. Se mancano gli insegnanti, chi fa lezione? È un circolo drammatico che danneggia enormemente lo studio. O si spezza questo circolo o salta l’università. Ma gli studenti potrebbero anche chiedersi se tutte le risorse culturali e didattiche sono state davvero messe in campo e utilizzate. E accorgersi sulla loro pelle che la gestione della istituzione in cui studiano tende di per sé a diventare restrittiva e conservatrice: non sfugge loro che le micropolitiche dei Dipartimenti mostrano spesso di essere meno liberali e più burocratiche di quanto ci si potrebbe augurare.

Faccio solo l’esempio della recente campagna per abolire i contratti di insegnamento, anche se gratuiti. Con diverse motivazioni, l’attuale dispositivo li ha messi sostanzialmente fuori gioco e nessuna voce istituzionale ha reagito, anzi si è applaudito al tramonto di un poco decoroso precariato. Ne so personalmente qualcosa per avere presieduto a lungo il Comitato per la didattica dell’ex Facoltà di Lettere. Quello che sta accadendo è un tipico caso del buttare via il bambino con l’acqua sporca. I contratti di insegnamento erano nati per dare spazio a personalità rilevanti della cultura o a chi comunque avesse la qualità adatte ad arricchire la didattica. Poi il fenomeno si è imbastardito, ma cancellarlo con un colpo di spugna, come sta accadendo, vuol dire sprecare delle risorse didattiche, assai poco onerose, che talora coprivano discipline seguite e molto apprezzate dagli studenti.

È solo un esempio del fatto che – a mio parere – l’università tende oggi a sotto-utilizzare o a non utilizzare affatto un bacino di potenzialità didattiche, spesso cresciute all’interno dell’istituzione stessa ma ormai declassate a risorse inutili. A chi giova questo spreco? Non certo ai giovani (e meno giovani) ricercatori non incardinati che vengono messi alla porta sine die, o almeno fino a che una felice combinazione, sempre più rara, li farà entrare come docenti ufficiali (quali? quando?). Non serve all’immagine culturale dell’università cui gli “esperti” di valore hanno spesso dato un rilevante arricchimento. E sicuramente non giova agli studenti, anzi li impoverisce facendo scomparire da un anno all’altro argomenti di studio e figure di insegnanti non poco apprezzati.

Ho l’impressione che simile desertificazione silenziosa dell’offerta didattica non sia un effetto della “mortalità” dei docenti di ruolo. Quest’ultima resta la questione di fondo, non ci piove. Ma perché fare piazza pulita delle altre risorse potenziali (spesso a costo zero) che ho qui ricordato?

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