di Pier Aldo Rovatti

 

Nel 1983 avevo pubblicato su “aut aut” alcune pagine dal titolo Narrare un soggetto. Nota su “Palomar” di Italo Calvino. A partire da una lettura puntuale dell’esperienza raccontata in Palomar (che era uscito allora presso Einaudi), ponevo una serie di domande di taglio filosofico e concludevo così: “Queste domande configurano un compito incerto e contraddittorio: un imparare a guardar di lato, a non guardare nel vuoto, pur sapendo che è lì sotto, e ciò nonostante un continuare a guardare, non abdicando al compito” (cfr. “aut aut”, 201, maggio-giugno 1983, pp. 36-37).

Vorrei ora ripartire da qui, magari abbassando il tono e forse avvicinandomi un po’ di più alle pagine stesse di questo testo di Calvino che considero molto importante per rispondere alle domande che tuttora poniamo a noi stessi, dopo oltre trent’anni dalla sua pubblicazione. Mi pare che Palomar resti un’esperienza di scrittura e di pensiero che non solo non va dimenticata (e con essa Italo Calvino) come qualcosa che appartiene a una stagione trascorsa, ma che ci riguarda sempre più da vicino e che siamo ben lontani dall’aver fatta nostra. Complessivamente, è un’esperienza di “etica minima” che Calvino lascia sospesa e che sta a noi far affondare nell’oblio oppure riprendere e utilizzare come una sorta di antidoto alle crescenti inquietudini culturali del nostro presente.

Personalmente ritengo che sia per noi fondamentale, quasi vitale, appropriarci di questi “silenzi del signor Palomar” che Calvino raccontava in primissima persona, silenzi che nell’andamento delle sue pagine diventano via via più “rimuginanti”, rivelandoci che le bizzarre e quasi disordinate “osservazioni” possono rappresentare un modo di pensare che è al tempo stesso un modo di vivere. Anche per me la parola “etica” fa problema, quasi che nel momento in cui la adoperiamo ci costruissimo da soli una specie di gabbia: ho tentato di liberarla un po’ con l’aggettivo “minima”, che la indebolisce, comunque non ho dubbi che ne abbiamo un gran bisogno, soprattutto adesso, e che Calvino/Palomar ci fornisce un prezioso suggerimento con quel suo “mordersi la lingua” prima di parlare, gesto semplice ma difficilissimo da eseguire, partendo dal quale cominciamo a capire di che natura siano quei “silenzi” e che conseguenze sociali potrebbero avere se riuscissimo a praticarli.

Sempre che ci convincessimo che è essenziale, irrinunciabile, imparare a farlo.

Eravamo all’inizio degli anni ottanta, in un contesto culturale molto diverso, più ricco e inquieto. Non è un caso che delle “osservazioni” che Calvino fa fare al suo personaggio si parlò allora, tra l’altro, su una rivista di filosofia (“aut aut”, appunto) e specificamente in uno spazio dedicato alla ricezione del cosiddetto “pensiero debole”, che era appena entrato con qualche rumore nel dibattito pubblico. In questo spazio cominciavano a essere ospitate voci provenienti da varie sensibilità filosofiche, non solo di alcuni di coloro che avevano partecipato direttamente all’antologia feltrinelliana fresca di stampa, ma anche di altri che potevano entrare in risonanza con il progetto “debolista” anche in ambito internazionale (in seguito, e per parecchi anni, i reading di Filosofia curati da Gianni Vattimo per Laterza ampliarono tale iniziativa).

Calvino non partecipò direttamente, tuttavia entrò nella scena attraverso le mie note sul signor Palomar. Fu una forzatura? Magari destò qualche sorpresa, o magari ci sembra oggi che potesse farlo guardando indietro da un contesto, quello attuale, nel quale la “ricchezza” cui ho accennato, che significava maggiore libertà di pensiero, ha poi lasciato il posto a un senso di rigidità disciplinare e forse dunque di “povertà”, malcelato in uno sciame culturale che moltiplica vertiginosamente i rumori mediatici.

L’osservatorio che Calvino installa nel suo personaggio tende a catturare onde minori e minimi dettagli, lavora per attutire i rumori e costruire dei silenzi. Mi sembrava del tutto consonante con l’esperienza di pensiero che alcuni di noi credevano importante, anche politicamente. La mia intenzione era l’opposto di un tirar dentro, magari per i capelli, un nome grosso della letteratura contemporanea (semplicemente, poi, non c’era alcun “dentro” o squadra che facesse campagna acquisti): vedevo, invece, in Calvino e in quel suo singolare tipo di narrazione, ciò che la mia (e nostra) esigenza di mettere in piedi un diverso esercizio di pensiero poteva assumere quasi a modello di scrittura.

Oggi siamo preda di molte amnesie e prevale il cinismo dell’oblio, ma allora l’amicizia tra narrare e pensare appariva a molti una posta in gioco importante per la filosofia e per il sapere in generale. Calvino era, e resta oggi sotto traccia, un esempio di pensiero che decostruisce il monolitismo del discorso in una sequenza di segmenti e di episodi narrati, proprio come accade in Palomar: osservazioni all’apparenza disperse che sono esse stesse il filo che la nostra ansia speculativa pretenderebbe già lì, bene articolato in una premessa teorica. Il signor Palomar – è Calvino stesso a riconoscerlo – se è vero che cerca qualcosa di simile a una “saggezza”, di fatto non la troverà.

Perciò non è affatto irrilevante considerare anche il microcontesto da cui si produce Palomar: Calvino appresta una specie di rubrica intitolata “le osservazioni del signor Palomar”, qualcosa di simile a una rubrica da terza pagina di quotidiano, e che infatti comparirà parzialmente sul “Corriere della Sera” e marginalmente anche su “la Repubblica”. Il tono dei suoi “pezzi”, che va accumulando e in parte pubblicando, è molto diverso da quello dell’invettiva piratesca di Pasolini, tuttavia è un particolare curioso il fatto che è proprio a Pasolini che per un certo periodo Calvino dà in qualche modo il cambio sul “Corriere”. […]

[estratto dell’articolo uscito su “aut aut”, 372, 2016]

 

 

 

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