di Franco Rotelli*

Questo piccolo testo, tradotto come un verbale da mano rigorosa, notarile, potrà sembrare a molti lontano, quasi patetico. Alla fine della lettura che avverrà svogliata e per salti, si dirà: sì, era di quando c’erano i manicomi. Sì, probabilmente aveva allora anche senso parlare di vestiti, di mense, di come far passare le notti insonni, di come cercare uno scopo comune minimamente sensato alla vita dentro un istituto insensato, di come affrontare il tema dell’uscire fuori, di come star dentro, il tema del potere degli uni sugli altri, del pregiudizio.

Ma oggi tutto questo non ha più senso: era l’affrontamento di una certa comunità chiusa. Oggi il tema della psichiatria è altro, è la malattia.

Sorgerà pian piano forse solo ad alcuni un dubbio, come un tarlo: e se quello fosse ancora il luogo tematico del praticamente vero e quest’altro, della malattia, il luogo ideologico del travisamento, lo specchietto per le allodole dove si è di nuovo smarrito il filo delle questioni ?

Da che sorge il ragionevole dubbio per il quale la nostra stessa vita si scioglie pure nella questione del lavoro, dello star dentro e del venire fuori, della quotidiana dialettica dei poteri, del senso/non-senso singolare/plurale dell’esistere ogni giorno, della quotidiana economia delle cose, del discrimine, pregiudizio, della notte insonne: forse allora qui si parla anche di noi. Ora.

Si ragiona se quella fosse psichiatria critica, non psichiatria, critica della psichiatria, antipsichiatria o nuova psichiatria. Non si riuscì mai bene a stabilirlo. Sorge il ragionevole dubbio per il quale l’unica psichiatria accettabile non possa che essere altro dalla psichiatria. Cos’altro?

Leggendo queste paginette viene da pensare che si sia trattato, sempre, di un dibattito attorno all’essere concreto della democrazia. Come inverarla, come agire ogni giorno la lezione, questa sì terapeutica, come costruire modi della democrazia affrontandone, dentro un luogo specifico che la negava con particolare evidenza, le evidenti aporie: cercando di tradurle in contraddizioni, aperte, esplicite e quindi produttive di vita, di cambiamenti, di emancipazione.

E che cosa dovrebbe essere la terapia se non scuola di emancipazione? È come farlo, il problema. Ma un problema vero, non risolto, è altro dagli innumerevoli falsi problemi su cui si disloca confermandosi come ideologia, cioè come imbroglio: la psichiatria rifondata sul fittizio oggetto inerte della malattia. Feticcio.

C’è fretta di alcuni in questo testo. Il “verbale” annota quasi tutto sistematicamente: lo scontro tra chi propone soluzioni e un Basaglia che rinvia a più generali integrazioni e questioni. Inferirne che già vedeva la futura via emiliana alla psichiatria, fatta di pronte soluzioni, utili a negare, nascondere, rendere invisibili i problemi piuttosto che a farne terreno di cambiamento, questione aperta, interrogazione su un più ampio sistema, le sue inerzie, i suoi giochi del potere?

Per qualcuno ogni problema deve avere la sua rapida soluzione, per Basaglia ogni soluzione era sempre la parte più preoccupante del problema.

Preoccupare la soluzione, far capire a tutti che, nel mentre era dovuta, era contemporaneamente foriera di nuove più difficili insidie. E tuttavia adottare la scelta. Caricandola delle sue amputazioni. Per vent’anni (quanto pochi in realtà) Basaglia ha fatto null’altro che indicare come e quanto e quando e perché la soluzione in psichiatria fosse non tale ma spesso, appunto, il problema.

Soluzione che si fa subito (se non lo è già prima) istituzione, e come tale è il problema. Perché in quanto tale si è lontani dal bisogno, si autoregola, si ricostruisce come famelica creatura, si ciba dei propri bisogni di riproduzione e non della risposta a quelli di coloro per i quali avrebbe dovuto essere creata.

Si veda en passant l’esilarante dibattito sull’insonnia degli internati. Su quale soluzione adottare. Tutte in fondo insensate. Ma qualcuna più di altra: quale quella del buon “farmacologo” che si rifiuta di usare gli ipnotici, perché i farmaci vanno dati sulla malattia. Tragicommedia che si ripete ogni giorno e ogni volta che si voglia fare la “corretta psichiatria”. La presenza dell’istituto, della condizione di non-libertà che sta a monte, rende contemporaneamente ridicola qualsiasi strategia adottabile sull’insonnia dei pazienti (che disturbano il reparto). Ma se non ci si può interrogare se il paziente si stia divertendo con la sua insonnia (abbia voglia di stare alzato) o ne stia soffrendo – anche perché poi la questione vera è che gli altri (gli infermieri forse di più, ma gli altri pazienti forse anche) di questa sua insonnia vivono un notturno disturbo –, che fare?

E dall’altra parte, non sono analoghe le questione di convivenza di cui si fa quotidiano assillo il contratto continuamente rinegoziato della democrazia? Ma questo assillo permane qui o si è già sciolto nella decisione del medico che può essere alternativamente “stendete chi disturba” così come “non si possono usare psicofarmaci per risolvere un problema così”?

Ambedue risposte adialettiche, avrebbe detto Basaglia invocando le forme di una ricerca altra che ricomponesse in altro modo l’equilibrio delle questioni. Ideologia dell’ordine istituzionale, ideologia del sapere medico, ambedue ideologie che non toccano la realtà dei rapporti, non la scuotono autogiustificandosi ambedue dietro la propria logica, istituzionale o medica, rifiutandosi di sporcarsi le mani alla ricerca di una soluzione/non-soluzione che starebbe solo nel far qualcosa di quell’insonnia, non di silenziarla o ignorarla . Silenziare e ignorare con la giusta giustificazione politica o scientifica. Trasformare mai.

Trent’anni dopo la psichiatria emiliana cresce su quell’albero secco. Con Mario Tommasini che continuerà ad agitarsi come un pazzo sullo sfondo, protestando inutilmente perché anche con lui ci sarà negazione totale o successo elettorale come uniche risposte di un potere stupito e satollo e incapace di comprendere che voglia questo uomo.

La contraddizione principale delle psichiatrie sembra continuare a essere nello sforzo di costruire sempre nuove modellistiche, presumibilmente ripetitive di altre del passato, un proprio linguaggio, una propria semeiotica, allontanandosi dai saperi universali, dalle pratiche dell’esistere, sempre dai bisogni, là degli internati qui degli esternati, ricostruendo universi discorsivi “a parte”.

Questo piccolo testo riporta invece all’universo dei bisogni e, se proprio di simboli si dovesse vivere, alla potenza di modificazione simbolica del fare, della quotidianità delle vite, oggetto di rinegoziazione tra gli attori. L’infinita negoziazione propria della democrazia, come motore del rapporto interpersonale e tra le persone e le istituzioni che ne strutturano le vite.

Basaglia conosceva il peso delle istituzioni, oggi praticabili forse di più in quanto la potenza della costruzione materiale dei diritti, cioè dei modi regolati di rapporto con le istituzioni, consente un lavorio più approfondito, più sottile e complesso ma non qualitativamente difforme, tuttavia, se è assunto sul serio.

Negoziazione che vorrebbe la fuoriuscita, la non necessità di istituzione totale alcuna, che si ripete invece nelle cliniche, nella clinica, nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura e quindi, e prima, nella totalizzazione diagnostica e nel curare anche quando non fosse trattamento obbligatorio. Che poi l’obbligazione sostituisca definitivamente la fatica della negoziazione, i suoi saperi e pratiche necessariamente complicati, potrebbe essere estrema ratio della negoziazione, suo scacco, ma ne è invece quasi sempre surrogato e apertura al suo contrario. Tutto ciò ripopola, sotto le bandiere della cronicità, la deresponsabilizzazione dei tecnici, così come lo fa l’abbandono.

Quanti oggi sostanziano speranza progettuale sufficiente a convocare ogni giorno il gruppo degli operatori, gli infermieri, i medici, i volontari, gli utenti, mettendoli attorno a un tavolo per capire, cambiare insieme, confrontarsi, discutere, cercare le provvisorie soluzioni a questioni insolubili nel fondo ma affrontabili nella concretezza dell’oggi condiviso? Parole come “finalità comuni”, “collettivo”, “bisogni”, spariscono dal vocabolario della psichiatria reale sostituite da farmaci, colloqui, programmi terapeutici disegnati su carta, protocolli, moduli, prestazioni, procedure, schede di rilevazione, report.

Percorsi che realizzano sempre un rinvio a cronicità dichiarate e sancite irreversibili (rinvio al tempo inerte) o specialistiche infondate, rinvio a cliniche, ad altri, altrui competenze, competenze su patologie non su bisogni, su etichette non su sostanza. Il logos è diventato logo da un pezzo.

Perché ci si dovrebbe convocare, se ci si costituisce ormai per differenza, per distanza, per soliloquio ripetuto dalla mattina alla notte, dove tutti parlano, mandano posta, indifferente l’ascolto, la ricezione, il confronto. Ognuno proclama il mondo come vuole, si affanna a proclamarlo, a costituirlo in un monologo senza capo né coda e senza fine, senza altro obiettivo che affermare un simulacro della propria esistenza ansiosa.

Che c’è da convocare? Ci si convoca però sempre di più per sette, per appartenenze, per corporazioni, per identità, per mailing list. Ci si convoca per “uscire dalla ragione”, per costituirsi una ragione difensiva, darsi una ragione, mai cercare quelle altrui di ragioni o indagare davvero sull’apparente (e forse sostanziale) non-ragione di altri.

E via via che la democrazia diviene povera cosa, senza speranza, lo ritorna a essere anche la psichiatria.

Ci convocava alle 8 del mattino a Colorno, nella nebbia. Ricordo il sonno. Ma era bello avere la democrazia per colazione. Ti sembrava, e cominciava a sembrare anche a loro, ai matti, che avesse un senso la giornata laica che cominciava così.

Sarà stato perché eravamo così giovani che ci siamo sentiti irrepetibilmente vivi? O perché facevamo cose semplici e lavoravamo sul “praticamente vero”? O perché ci sembrava di sfidare la piena complessità del mondo?


* Testo uscito su “aut aut”, 342, 2009 (Basaglia a Colorno) con il titolo Quando c’erano i manicomi, come introduzione dei verbali di Colorno.

 

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