di Pier Aldo Rovatti

Alla fine del 2008, Franco Rotelli partecipò al corso di filosofia che tenevo all’Università di Trieste. Venne a parlare di “normalità”, argomento che poteva sembrare ovvio ma al quale Rotelli aveva sempre rimandato come se si trattasse del fuoco culturale e politico delle sue pratiche di continuatore dell’esperienza “rivoluzionaria” messa in atto da Franco Basaglia a Trieste.

Chi volesse può andarsi a leggere questo suo intervento nel volume Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia (pubblicato nel 2012 presso Alphabeta Verlag di Merano, nella Collana 180, e oggi ancora reperibile). Volevo facilitare, portando all’università i protagonisti dei temi che Basaglia aveva lasciato in eredità, un incontro con la vita significativa della città attraverso quel ponte culturale che allora era utilmente percorribile. Ricordo quelle mattine come momenti in cui qualunque aria di accademia spariva per lasciar posto a questioni realissime che ogni studente poteva respirare e magari testimoniare in prima persona.

Tra l’altro, il titolo del corso, “Restituire la soggettività”, che avevo prelevato dalle parole stesse di Basaglia, già subito ci mette sulle piste dell’idea di “normalità” che Rotelli voleva introdurre: soggettività e normalità erano per lui un medesimo punto di arrivo, nell’ipotesi che da restituire fosse appunto la normalità, intesa però come una “normalità vasta” nella quale poteva rientrare la follia stessa.

Una normalità contraddittoria, perfino paradossale, libera e aperta, qualcosa di poco abituale ma decisivo per combattere le ideologie psichiatriche con la loro galoppante medicalizzazione e per cercare di “inventare” nuove istituzioni inclusive che sconfiggessero le istituzioni escludenti, vecchie o ripristinate che siano.

Presentai l’ospite (che dopo la morte di Basaglia aveva ricoperto ruoli decisivi nella direzione della salute mentale triestina ed era ben noto a livello internazionale), ricordando agli studenti quanto aveva poco prima scritto, e cioè che “essere folli significa prendere tutto troppo sul serio” e che essere basagliani corrispondeva “a un agire ispirato a un’etica minima e a una pratica decente delle istituzioni”.

Rotelli aveva infatti sostenuto (usando un termine di sapore sartriano) che l’unico modo per difendersi dalla follia era quello di intaccare e ridurre l’“obbligo della malafede”, in breve di guardare in noi stessi per accorgerci che di continuo nascondiamo una dimensione di follia, o cancellandola del tutto come se non ci riguardasse affatto o truccandola in qualcosa che non appartiene in alcun modo alla nostra normalità e che andrebbe completamente appaltato alle pratiche psichiatriche.

Devo dire che riesco facilmente a condividere la critica frontale di Rotelli insieme a quelle che nella sua lezione chiama “catene linguistiche”, ovvero all’incatenamento ideologico (sempre più attuale!) che ci conduce, una volta isolato il disturbo cosiddetto mentale, dalla prognosi alla terapia, bloccando tutti i nostri pensieri in una verità a due binari, il binario della malattia e il binario della guarigione, insomma nella macchina della medicalizzazione.

In piena sintonia con Basaglia, Rotelli sfatava comunque la fuga in avanti (o indietro?) dell’anti-psichiatria radicale: non si tratta di ignorare il disturbo, bensì di impedire che la pratica della “cura” invada completamente l’esperienza soggettiva. Per Rotelli restituire la soggettività vuol dire allora cercare di restituire la normalità nella quale possono convivere lo star bene e lo star male: non una normalità purificata o normalizzata attraverso la medicalizzazione, ma un “essere normali” in cui possono coesistere le gioie e i disagi, la giovinezza e la vecchiaia, insomma tutte le dimensioni “vaste” della vita quotidiana, con le differenze tra individuo e individuo, con tutte le infelicità e le felicità che ci portiamo addosso.

Riusciamo a identificarci con un simile messaggio a proposito dell’idea comune di vita? Riusciamo a difenderci dal “troppo” che caratterizza i saperi scientifici invasivi ma anche le idee che ci facciamo di noi stessi? Riusciamo a introdurre in noi quel tratto di “stupidità” che ci permetterebbe di non prenderci sul serio e di guardare con sospetto le macchine ideologiche che ci incatenano? Queste, e le altre che potrei aggiungere sulla scia di Rotelli, sono domande in cui si intravvede bene la verità che contengono ma che, al tempo stesso, restano interrogativi ostici per ciascuno (e magari sopravvivono solo nella forma di un punto interrogativo).

Rotelli ci provoca, ma la risposta sta a noi, non la troviamo nero su bianco né nelle sue righe né nelle sue stesse pratiche. D’altronde, chi di noi sta dicendo la verità su di sé quando condivide questo essere normali che comporterebbe un necessario tratto di stupidità?

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 24 marzo 2023]

 

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