di Pier Aldo Rovatti

Una mattina ho lasciato accanto al letto di mio figlio quindicenne il primo libro del Capitale di Marx, augurandomi che leggesse almeno le pagine iniziali. Non so se lo ha fatto, quello che so è che ormai quasi nessun giovane ha la voglia o solo la curiosità di sapere che cosa si trova scritto lì dentro, anche se magari partecipa alle manifestazioni di piazza e coltiva interessi politici.

Basterebbe leggere l’inizio, dove si dice che dominano le merci e che il valore proviene dal loro scambio, per avere un’idea di cosa stiamo parlando quando pronunciamo le parole “capitale”, “sfruttamento” o “lavoro alienato”. E per capire, senza tanti giri, che secondo Marx l’avanzata del capitalismo corrispondeva a un arretramento del “valore” del lavoro, dato che l’unica realtà che conta è il salario, quel denaro che ci dà accesso al mondo delle merci, diventato il nostro unico mondo.

Scrivo “valore” tra virgolette perché questo valore del lavoro non dovrebbe venire mercificato, anzi corrisponde al significato e all’importanza di ciò che facciamo per la nostra stessa vita. Il lavoro dovrebbe dare senso all’esistenza di ciascuno di noi, mentre accade il contrario: posto che abbiamo un impiego, ogni giorno aspettiamo che finisca l’orario di lavoro per cominciare a vivere davvero la nostra vita.

Il lettore mi perdoni questa rapida sintesi, voglio solo fare memoria su qualcosa che abbiamo dimenticato (come ormai non ricordiamo più cosa aveva cercato di mostrarci Marx, oltre un secolo e mezzo fa): in poche parole, quale sia il significato della frase “lavoro alienato”. Ormai non abbiamo tempo per fermarci su questioni come questa, che emanano un sentore di faccende passate (“roba da filosofi”!), mentre il presente ci mette di fronte a ben altre urgenze per le quali ne va della sopravvivenza stessa delle persone.

Non c’è lavoro e quello accessibile viene sottopagato. Non abbiamo tempo per occuparci di questo “valore” del lavoro: navighiamo a rischio di naufragio in mezzo a spaventose disuguaglianze e insicurezze. Ci sentiamo fortunati se nella precarietà attuale troviamo un lavoro e se l’impiego che siamo riusciti a procurarci ci dà un salario decente. Lasciamo agli immigrati i lavori più squalificanti, speriamo che i nostri studi ci schiudano qualche porta, sappiamo che la questione sud/nord è tuttora drammaticamente aperta, così molti tentano di giocare le proprie chances all’estero.

Certo, se riusciamo a usare bene le opportunità che ci si presentano, tutti vorremmo che nelle ore della giornata in cui lavoriamo realizzassimo i nostri desideri e le nostre passioni, ma in che misura ciò accade davvero? Riuscire a trovare un lavoro garantito e non alienante è qualcosa di raro. La maggior parte di noi finisce per adeguarsi, accettando quel che passa il convento e magari vedendo un colpo di fortuna nel fatto che qualcosa ci arrivi.

Ogni giorno i problemi del lavoro diventano più assillanti per chi ha il compito di gestire le questioni sociali, per i media che diffondono le difficoltà di tale gestione, per la grande massa di coloro che si affacciano al mondo del lavoro e non sono riusciti a entrarci, anzi ne sono stati espulsi. È il problema politico-economico che silenzia tutti gli altri, pure di grandissima importanza come le questioni geopolitiche e quelle ambientali.

Ma l’aspetto più sostanziale del lavoro, laddove si gioca la “sostanza” della nostra soggettività e dunque della nostra vita, quello che occupa maggiormente le ore della giornata (sempre che sia una effettiva giornata lavorativa), ebbene quello resta fuori della scena, diventa di necessità qualcosa di secondario, a cui prima o dopo siamo costretti a rinunciare. Così accettiamo molto spesso che il lavoro sia qualcosa di “alienante” in quanto povero o svuotato di un valore intrinseco.

Il primo articolo della nostra Costituzione recita che siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Ma che significa questo “fondata”? Sembra che voglia dire che per l’Italia il lavoro è la cosa più importante, talmente importante che su di esso si regge l’intero edificio delle istituzioni e del senso che hanno per ciascuno di noi. Allora è il caso, ogni tanto, di guardarci dentro, di sapere in che cosa concretamente consiste questo “lavoro”, soprattutto come in esso si rispecchiano il “valore” e il significato delle nostre vite.

Direi che un’occhiata a quanto ha scritto Marx potrebbe almeno aiutarci a non confondere lavoro con lavoro alienato, perché sarebbe difficile sopportare che nella nostra beneamata Costituzione ci fosse scritto che viviamo in una Repubblica fondata su un lavoro da intendersi come una semplice merce. Al contrario, vorremmo vivere in un Paese in cui i cittadini possano realizzare se stessi nell’attività con la quale riempiono le loro esistenze.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, il 24 febbraio 2023]

 

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