di Pier Aldo Rovatti

Da quando, domenica scorsa, papa Francesco, parlando alla sua piazza, ha detto che bisogna riuscire a farsi da parte, è partito un vortice di possibili riferimenti: che cosa accadrà in Vaticano dopo la scomparsa del papa emerito, a chi sta precisamente riferendosi Francesco?

Sta annunciando la propria intenzione di farsi da parte? Oppure sta indicando alcuni oppositori interni che potrebbero mettersi di traverso travagliando il suo pontificato?

Può darsi che il riferimento fosse all’una o all’altra di tali questioni più interne, avremo modo di verificarlo, ma perché non intendere le sue parole per ciò che ci dicono nella prospettiva di un’etica minima che riguarda ciascuno di noi e la situazione non facile nella quale ci siamo impantanati?

Oggi, decidere che la cosa migliore nell’ambito delle nostre vite personali sia di fare un passo indietro o almeno a lato sembra diventato un gesto molto difficile, sempre meno concepibile prima ancora che realizzabile: ciascuno pensa immediatamente alla quantità di svantaggi che questa decisione comporterebbe, senza riuscire a immaginare alcun vantaggio immediato. Piuttosto, avrebbe paura di perdere un’occasione in un mondo dove o prendi al volo la chance che ti ritrovi tra le mani oppure rischi di essere escluso. Nel mondo accelerato nel quale ormai viviamo, l’esitazione non sembra una virtù da coltivare, piuttosto dovremmo tutti allenarci a cogliere l’attimo, sfruttare l’occasione, se e quando ce la trovassimo davanti.

Tra l’altro, se consideriamo le parole con cui il papa ha accompagnato il suo monito, sembra proprio che, più che ripiegarsi sulle faccende vaticane, esse possano riguardare un esercizio che si riferisce a ciascuno di noi in una situazione sociale e culturale nella quale il “farsi da parte” appare come un atteggiamento decisamente sconsigliabile.

Che cosa dice precisamente papa Francesco? Dice, in buona sostanza, che ci troviamo in un frangente epocale in cui al primo posto sta sempre il nostro bisogno di essere stimati e premiati, e contrappone a questo invasivo dato di fatto ciò che sembra conseguentemente scomparso dalla scena contemporanea, il prendersi cura degli altri senza esigere vantaggi per sé stessi.

Discutiamo simili affermazioni: sono davvero semplici parole cavate dal Vangelo che non hanno più nessuna presa sulla nostra psiche, ormai catturata dall’esigenza che ogni gesto deve sempre trovare un riconoscimento esterno, un premio al merito o almeno un attestato di stima? Senza la possibilità di un tale riconoscimento, perché mai dovremmo darci da fare, magari rischiare di metterci in una situazione in cui ci possiamo sentire perdenti?

La questione non è banale: mette in gioco la stima di sé e la capacità di far funzionare un’idea e una pratica di soggettività che si contrappone all’ormai ben noto e trionfante individualismo, ormai vincente un po’ dovunque. Ma come? Questo individualismo non ha forse qualcosa in comune con l’idea di autostima di cui abbiamo bisogno per non scimmiottare quanto avviene nella banalità del quotidiano, dove certo non trionfa il coraggio di chiamarsi fuori sulla base di un’esigenza etica che pare contraria ai nostri interessi?

Mi pare che nella situazione attuale questa identificazione tra il mettersi da parte e l’individualismo che, tanto o poco, abita dentro di noi, sia molto difficile da sostenere. L’individualista (che ciascuno ormai in qualche modo è) non è un moderno eremita, al contrario si dà da fare, spinge per emergere senza troppo curarsi di chi subisce il suo sgomitare, anzi senza neppure accorgersi degli effetti del suo desiderio di prevalere.

Il farsi da parte è semmai destinato al silenzio, alla disattenzione della società, anche se viene impersonato da un personaggio importante. La storia passata è ricca di esempi di rinuncia, di ritiri clamorosi, che come tali magari hanno influenzato interi popoli, attratto interessi virtuosi, fornito condotte da imitare positivamente, anche se in nessuno dei tanti casi che si sono verificati non è mai bastato ritirarsi in cima a una montagna: quello che contava (e che conterebbe ancora) era il significato di simili ritiri che, nei casi migliori, erano un modo per attirare l’attenzione e invitare a un processo di riflessione.

Ho l’impressione che adesso ritirate di questo genere durerebbero un tempo mediatico assai breve, simile a quello di una bolla di sapone. Ma qui, comunque, non sto parlando di personaggi alla Gandhi e neppure di chi, a proprio rischio, pratica per protesta uno sciopero della fame. Chi si fa da parte, se ci riesce, non deve produrre alcun esempio “eroico”, bensì dovrebbe fornire l’esempio di una nuova normalità: non qualcosa da imitare, ma il bisogno di fermarsi, arrestando la corrente, per tentare di rilanciare quella cosa molto normale, che però abbiamo perso per strada, che consiste nella capacità – sempre più difficile da attivare – di “pensare agli altri”, sempre che nessuno ci tiri subito per la manica.

[Uscito su “Il Piccolo”, venerdì 20 gennaio 2023]

 

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