di Pier Aldo Rovatti

La situazione italiana si presenta come un preoccupante fenomeno di frustrazione sociale: un disagio individuale diffuso sembra spalmarsi su una parte non piccola della società dando luogo a manifestazioni all’apparenza irrazionali e anche a episodi violenti. Che cosa sta accadendo?

La risposta non è così semplice e comunque non può essere ridotta a schemi ovvi. Certo, la pandemia ha stressato tutti e messo alla prova soprattutto i deboli e gli svantaggiati. Certo, il vaccino ha sollevato problemi e alimentato sfiducie rispetto al sapere scientifico. Certo, il green pass ha suscitato incomprensioni e acuti dubbi sulla sua democraticità. Certo, il timore che si stia costruendo un regime di controllo (una “biogovernamentalità”, come l’ha chiamata qualche intellettuale di spicco) fornisce benzina al motore del complottismo. 

Ma basta questo elenco? Al quale andrebbe almeno aggiunto il coro delle speculazioni politiche nei giorni stessi delle elezioni amministrative. Il tentativo di afferrare il senso dell’attuale disagio attraverso l’opposizione tra buoni e cattivi, tra una politica che apre e una politica che chiude sfruttando anche i rigurgiti della nostalgia, è necessario, indubbiamente utile per valorizzare la barra democratica che rischia di squilibrarsi, tuttavia non basta per comprendere fino in fondo il disagio e per attenuarlo veramente.

Ammettiamolo, siamo alquanto spiazzati. Se osserviamo con attenzione quanto avviene nelle piazze, percepiamo una inquietante trasversalità che pare precludere qualunque tipo di pensiero binario: le ragioni della protesta sono molte e variegate, come se ciascuno riversasse nel comune scontento una personale esperienza. E allora? Allora, se riteniamo che questa eterogeneità non vada fatta sparire perché è il punto da capire, forse dovremmo trattenere la nostra fretta di concludere e fermarci un poco di più sulle esperienze individuali che entrano qui in gioco.

Direi che le parole che potrebbero guidarci in questo spostamento dell’osservazione sono soprattutto “vittima” e “libertà”. Ci sentiamo vittime perché molti di noi, al di là delle etichette politiche e sociologiche, vivono la loro condizione come qualcosa che subiscono senza motivo e senza averne alcuna colpa. Il disagio che ci attraversa appare come un effetto che arriva dall’esterno e perciò va completamente attribuito a questo fuori: noi saremmo appunto le vittime incolpevoli delle nostre angustie, perciò dobbiamo identificare i colpevoli, smascherarli e combatterli, alleandoci con coloro che possono aiutarci in questa caccia.

Non è una novità che si registri un simile processo di vittimizzazione: la storia recente e passata ne fornisce innumerevoli esempi e ci dice anche che per questa strada non si va da nessuna parte (quando poi non capiti che le vittime presunte si prestino a diventare vittime reali). Quello che oggi sorprende maggiormente è che il fenomeno si verifica proprio nel momento in cui potevamo credere che la consapevolezza critica avesse cominciato ad agire in ciascuno, quasi a segnare una soglia di civiltà comune già raggiunta. Invece siamo di fronte a un processo regressivo, non così prevedibile, di pura difesa (non prevedibile tenendo conto del fatto che il lockdown si è rivelato per parecchi di noi anche una pausa di riflessione critica e autocritica). 

Vittima e libertà si collegano in maniera evidente, quasi scontata. Adesso, però, questa inedita condizione di vittima implica una forma di libertà che si caratterizza come assoluta e del tutto individualistica, cioè all’altezza dell’egocentrismo attualmente imperante. Una libertà intesa come diritto di fare ciò che si vuole nel momento in cui si vuole. Solo un esempio, per capirsi: la presunta “dittatura sanitaria” si rovescia nel rifiuto senza eccezioni di qualunque obbligo, a vantaggio di una libertà individuale priva di condizioni o impedimenti. 

Non ci vuole molto a intuire che una tale pratica della libertà non solo è impossibile, ma contrasta con ogni pratica della democrazia e del diritto stesso, che funziona solo in base a regole. Il potere del popolo (la demo-crazia appunto) contrasta evidentemente con un’idea assoluta di libertà personale. Se alla esigenza di un qualunque obbligo reagiamo con un vade retro Satana, ci collochiamo automaticamente fuori dalla democrazia. Se, invece, siamo disposti a discutere seriamente di quale obbligo stiamo parlando, restiamo dentro i confini della democrazia, ma questa non è precisamente la situazione che abbiamo adesso di fronte agli occhi. 

Per introdurre qualcosa di democratico nelle rivendicazioni di libertà che ascoltiamo nelle piazze, occorrerebbe che il bisogno di libertà (al quale nessuno può rinunciare) si relativizzasse a contatto con la realtà e non sgorgasse da un’identificazione a priori con la vittima. Ecco, forse, un nodo che ci siamo costruiti da soli e che potrebbe produrre il disagio nel quale rischiano di naufragare. 

[Pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 15 ottobre 2021]

 

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