La scuola scopre le ore asincrone
di Pier Aldo Rovatti
Le ore “asincrone” le avevano già scoperte le aziende. La scuola secondaria le ha varate con le linee guida ministeriali del novembre scorso, ma solo adesso entrano stabilmente nell’organizzazione della didattica in un’altalena quotidiana con le ore “sincrone”.
Si tratta del modo di caratterizzare i tempi delle lezioni a distanza: ci aiutano a capirlo la parola greca kronos, che significa appunto “tempo”, mentre i due prefissi, sin (con) e a (senza), indicano le ore di lezione “contemporanee” e le ore di lezione “non contemporanee”. Ci aiutano ma non ci fanno arrivare al punto della questione: le ore sincrone sono infatti quelle in cui gli studenti e l’insegnante sono “presenti” (diciamo così) nel medesimo tempo, mentre le ore asincrone quelle in cui gli studenti eseguono da soli esercizi a loro affidati nelle ore sincrone.
Forse bastano parole meno ricercate, poiché in se stessa la cosa è abbastanza semplice. E produce effetti interessanti, meno astrusi di ciò che può sembrare da questa nomenclatura alquanto assurda. Le ore asincrone introducono nella didattica a distanza, cioè nel modo in cui la scuola secondaria funziona nelle cosiddette zone rosse (finché le cifre del contagio non si abbasseranno), un ristoro allo stress da schermo che gli adolescenti stanno sopportando: ogni regione e perfino ogni istituto scolastico le allestiscono con una certa libertà, tuttavia il quadro è abbastanza condiviso nel senso che le sei ore quotidiane (con diversi ritocchi nel minutaggio) si scandiscono in una sequenza di tempi pieni e tempi vuoti che si avvicina al 50%.
Le ore asincrone sarebbero tempi “vuoti”? Come ho detto, dovrebbero essere tempi di attività individuale a computer spento. A volte sono intensi e faticosi. Sono in ogni caso delle pause. Comunque i ragazzi le organizzino (con l’esecuzione disciplinata degli esercizi impartiti o introducendo qualche strappo in questa disciplinarità), le ore asincrone permettono di “respirare” rispetto all’“affanno” prodotto dalla serialità delle ore sincrone. I ragazzi possono darsi un loro ritmo, possono sgranchirsi (non limitarsi a essere quei “granchi” da computer che la DAD li costringe a diventare), possono camminare per casa, mangiare o bere qualcosa. Possono anche “comunicare” tra loro, ridere e scherzare: sì, perché il ricorso allo strumento digitale, usato per parlare tra loro, perde molto della sua oppressività se diventa scambio e gioco. Accade anche che le stesse ore sincrone permettano momenti di pausa se è vero che alcuni insegnanti concedono talora ai propri studenti di ascoltare togliendo il video.
Mi pare, insomma, che stia passando l’idea che occorra difendersi dalle conseguenze negative della didattica a distanza. Come se fosse finalmente chiaro a tutti che questo tipo di didattica, pur fornendo dei vantaggi (innanzi tutti, quello enorme di impedire che la scuola chiuda del tutto i battenti), ha conseguenze preoccupanti sui giovani, desocializzati e costretti a ore e ore quotidiane di immobilità. Una modesta riflessione in proposito ci fa capire che la DAD viaggia in direzione opposta rispetto a quello che dovrebbe essere il compito formativo della scuola. Basterebbe interrogarsi sul significato che vorremmo ritrovare nella parola stessa “formazione”, che riguarda l’insieme delle esperienze di vita e non può ridursi a un imbuto con cui versare nel cervello di un adolescente recipienti di nozioni.
Abbiamo imparato a chiamarla DAD (didattica a distanza), ma adesso dovremmo dire DDI (didattica digitale integrata). Più che cercare di capire che cosa si possa leggere dietro il termine “integrata”, mi pare interessante osservare l’elisione della parola “distanza”: sta lì il cuore del problema ed è sintomatico che si voglia cominciare a silenziare il punto dolente con l’istituzione delle ore asincrone. Questo bisogno di intervallo, con cui interpreto il parolone “asincrone”, va ben oltre le specifiche difficoltà in cui oggi si barcamena la scuola per arginare eventuali focolai. Riguarda una durata eccessiva del tempo quotidiano delle lezioni.
Potrebbe essere la volta buona perché ci accorgiamo che la scuola secondaria (ma anche la primaria) non può equivalere a un parcheggio giornaliero di sei ore, che corrisponde certo a una generale esigenza sociale (cioè delle famiglie) ma non tiene nel debito conto una serie di altre esigenze che riguardano i soggetti che sono soprattutto in questione, cioè i ragazzi. Esigenze legate all’attenzione, all’apprendimento, al bisogno di avere pause di “divertimento” (nel senso etimologico della parola) e di “respiro”.
Esistono studi serissimi che hanno valutato i massimali del tempo di attenzione, ma è sufficiente un’osservazione empirica per vedere lo scarto tra le esigenze che ho enumerato e la sordità della scuola attuale su questi aspetti. La “scoperta” delle ore asincrone in regime di DAD dovrebbe spingerci a guardare oltre l’emergenza e a promuovere una ragionevole riforma dell’organizzazione del tempo-scuola, ivi compreso il problema mai seriamente affrontato del carico dei compiti a casa.
[Pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 19 marzo 2021]
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