Lettera aperta ai giovani che aspirano all’insegnamento superiore
di Sergio Benvenuto

Alcuni amici, non più giovani, che lavorano nelle fabbriche della cultura, mi dicono di questi tempi: “Detesto fare via video convegni, lezioni, conferenze, gruppi. Aspettiamo che l’epidemia passi, e così faremo il nostro agognato convegno come si faceva prima.” Mi fanno tenerezza, e per non sconvolgerli non dico loro quel che penso: “Anche dopo l’epidemia, ti capiterà di fare ben pochi convegni in presenza!”.
Altrove ho argomentato come la pandemia da coronavirus darà un’accelerazione impetuosa a un cambiamento che era già in corso, e che nel prossimo futuro cambierà sempre più radicalmente la nostra vita (https://www.doppiozero.com/materiali/estizzazione-la-nostra-vita-dopo-il-coronavirus). Ovvero, sempre più il nostro lavoro si svolgerà via video. E non solo il lavoro.
Gli spettacoli, ad esempio: grazie a fornitori come Netflix (poi ne nasceranno altri), ci scaricheremo i film che vogliamo e ce li guarderemo a casa, su schermi che diventeranno sempre più cinemascopici.
E così la seduzione amorosa avverrà sempre più attraverso dating applications, come Tinder. Un’attività di ricerca che, per molti, diventa sempre più compulsiva. Non ci sarà più bisogno di andare a ballare per trovare un partner amoroso o semplicemente un sex friend, né dovremo accontentarci di cercare il coniuge tra colleghi o colleghe d’ufficio.
Non c’è bisogno di essere futurologi di professione per immaginare gli effetti di questa conversione al video remoto nel campo dell’insegnamento. Non cambierà quasi nulla per l’asilo e le scuole elementari, ma, man mano che il livello di istruzione si eleverà, sempre più esso verrà fatto in remoto. È inevitabile, piaccia o meno.
Esistono già da tempo corsi di laurea on line; nel futuro quasi tutti i corsi di laurea saranno on line, o in streaming. Ovvero, un professore potrà fare lezioni in presenza di una decina di studenti e studentesse, che andranno là per le ragioni più varie (per parlare poi col professore, per corteggiare una studentessa…), e poi essere seguito magari da migliaia di studenti in streaming.
Ovvero, le università saranno sempre più delocalizzate. Potrò essere un cinese di Nanchino e iscrivermi ad Oxford in UK, potrò essere un paraguayano di Asunción e iscrivermi a corsi di matematica a Paris-Saclay. Per limitarci all’Italia, se sono una ragazza che abita a Roccasecca, provincia di Frosinone, non sarò costretta a trasferirmi nella costosa Milano per iscrivermi alla Bocconi e prendermi una laurea in Economia.
Questa deterritorializzazione dell’insegnamento avrà un effetto irrimediabile: la riduzione progressiva del personale insegnante. E ovviamente anche delle università: resteranno le più importanti, e quelle più internazionalizzate. Sempre più studenti e studentesse vorranno assistere via video all’insegnamento dei “professori migliori” o che considerano tali. E un “grande professore” o una “grande professoressa” potranno tenere lezione a migliaia di persone contemporaneamente… Oggi, un professore alquanto scarso o noioso ha un certo numero di studenti comunque, perché, essendo costoro stanziali, non hanno scelta. Ma cosa avverrà quando, di fatto, gli studenti potranno scegliere i professori? Le università avranno tutto l’interesse ad assumere per i loro corsi di laurea i professori più importanti, più noti, o semplicemente più simpatici, per attrarre iscritti; insomma, sempre di più i professori verranno scelti dagli studenti. Non importa che le università siano pubbliche o private: ognuna andrà alla rincorsa dei professori e professoresse che attraggono più studenti. Come già accade in molte università non solo private, sarà sempre più lo studente a decidere, perché paga. Il cliente ha sempre ragione.
Quindi, diminuzione progressiva degli insegnanti: i “migliori” (qualunque sia la definizione di migliore) accaparreranno la maggior parte degli studenti, agli altri resteranno solo le briciole. E quando queste briciole saranno minime (probabilmente per la maggioranza dei docenti), questo porterà all’eliminazione dei professori marginali. Come del resto accade in qualsiasi campo, culturale e non.
Quando in Italia si dette il via libera alle televisioni private, solo gli illusi pensarono che questo avrebbe moltiplicato le reti facendo trionfare la democrazia mediatica: di fatto, per decenni, quasi tutto il pubblico si concentrò su sei reti, tre della RAI e tre di Berlusconi. Ma questo accade anche in filosofia, per esempio. Filosofi bravi ce ne sono stati tanti nella storia, ma quanti di loro leggiamo e studiamo? Una minuscola parte. Non è che sia diverso dai motori di ricerca: ce ne erano tanti, e poi è rimasto solo Google.
Si calcola che ogni anno solo una piccolissima porzione di romanzi pubblicati e di film distribuiti (circa una diecina) accaparra la maggior parte del pubblico, circa l’80%: agli altri romanzi o film, di cui alcuni anche molto buoni, restano solo piccole briciole. Di fatto, tutti leggiamo gli stessi romanzi, tutti vediamo gli stessi film, tutti ascoltiamo le stesse canzoni, tutti leggiamo gli stessi filosofi… in tutto il mondo o quasi.
Con professori e università sarà la stessa cosa. Ne resteranno ben pochi.
Se quindi oggi un giovane mi chiedesse consiglio se intraprendere o no una carriera universitaria (oggi una carriera da Calvario, in Italia), gli direi: “Tentala solo se sei convinto/a di essere veramente eccezionale. Altrimenti non tirerai un ragno dal buco”. Non basterà essere un po’ bravo… Per “eccezionale” non intendo solo avere un grande talento nel proprio campo, ma – in mancanza di questo, o in aggiunta a questo – avere anche altri talenti che assicurano il successo nell’insegnamento: la seduzione oratoria, il carisma didattico, la capacità organizzativa, il saper usare i media per crearsi fama.
Essere professore universitario ridiventerà quel che era un tempo, quando di professori ce n’erano pochi: essere parte di una corporazione altamente prestigiosa, quasi irraggiungibile.
Insomma, giovani, buona fortuna! E un felice 2021.
PS. Voglio ricordare che sono un pensionato. Quindi, quel che scrivo non mi espone a conflitti d’interessi.
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