di Paolo Fabbri

Pour qu’une identité s’affirme il faut qu’elle ait surmonté l’épreuve
de la durée et l’affrontement de l’autre.

J. Starobinski, Personne, masque, visage, 1976

 

1. La riflessione sull’identità, di cui si sottolinea oggi l’indecisione e la crisi, si è concentrata prevalentemente sull’Io, sull’istanza individuale dell’enunciazione e le sue diverse figure o maschere (Descombes). Una singolarità personale: l’Io nominativo e il Me accusativo; il Medesimo, cioè l’identità con sé stessi nel corso del tempo, e lo Stesso, che si differenzia dalle identità altrui (Ricœur).

Il singolo ha dovuto sempre confrontarsi con alter Ego, cioè con l’appartenenza[1] e la partecipazione a raggruppamenti più ampi e di diversa entità, a cui un individuo, durevolmente situato all’incrocio delle classificazioni in cui è iscritto, può connettersi o sottoporsi, oppure sciogliersi o liberarsi.[2] È la vita sociale, intesa non come generica interazione, ma come un campo relazionale e un potenziale dinamico di esplorazione creativa dei rapporti tra organismi che diventano in questo modo persone; l’Io si interdefinisce con il Tu, il quale si fonda sul Noi del mondo sociale coesistente e compresente (Schütz).[3] Erving Goffman ha studiato i segni sociali della stigmatizzazione e tracciato l’esemplare analisi micro-sociologica della Forma di vita negatrice dell’identità, attraverso le carriere morali e le strategie di occultazione o copertura, di accreditamento e di discredito sociale di minorati, devianti o emarginati.[4]

Le identità collettive si enunciano alla prima persona del plurale: una molteplicità internamente articolata nel senso e nel valore che va dal dispositivo acentrico (le “mute” di Deleuze e Guattari), fino alle gerarchie più rigide e complesse (le Caste di Dumont) passando per l’articolata diversità equi-statutaria delle forme di vita all’interno della semiosfera (Fontanille). I nomadi, per esempio, si muovono attraverso lo spazio-tempo, costruendo identità momentanee (Giddens). Goffman ha studiato con acribia le situazioni, più o meno grammaticalizzate, a cui le diverse identità vengono appese, come indumenti a un portaabiti! Con cui si uniformano in divise collettive o tenute individuali di moda oppure si mascherano, in pace o in guerra, nel corso o di riti festosi – parate o carnevali – o di sagaci strategie di camouflage (Fabbri).

Ma il Noi non è solo la moltiplicazione estensiva della singolarità concentrata dell’Io, così come il Voi non lo è per il Tu. Non è questione di statistica, ma di topologia. Mentre si afferma, riflessivamente come collettività e comunità intensiva, l’istanza del Noi si definisce sempre, transitivamente, rispetto a un Voi e a un Loro. Con il non-Noi si diagramatizza un agencement collettivo d’enunciazione (Deleuze e Guattari). Un esempio: proviamo a coniugare il verbo /credere/: “Noi crediamo” è affermativo di una certezza, “Voi credete” avanza dei dubbi, “Loro credono” sostiene che quelli si sbagliano proprio.

L’autorappresentazione passa inevitabilmente attraverso l’immagine eteronoma di Noi, quale ci viene rinviata dagli altri. Quindi per immedesimarsi, per riconoscersi come un autonomo e permanente Noi stessi, non basta proclamarsi unici o multipli (Sen) per tradizione o per invenzione di trascorsi storici (Hobsbawm e Ranger), bisogna sempre confrontarsi, contrattualmente o conflittualmente, con l’Outsider: il Voi dell’Altro e dell’Estraneo e il Loro dello Straniero e dell’Alieno.

“Parole fondamentali” per Martin Buber, che riteneva la soggettività un pronome, che la responsabilità precedesse l’intenzionalità e la società fosse l’evento primario dell’Essere (Levinas).[5] Quello di ri-presentare – non rappresentare – il  reale, cioè di mettere in scena una seconda volta la già duplice esperienza umana: quella somatica poi quella cognitiva dell’identità personale e sociale (Coquet).

Anche secondo quell’originale sociologo di Norbert Elias i pronomi non sono solo “pidocchi del pensiero” – come scriveva Gadda – ma “figurazioni sociali”, cioè modelli semantici che ci aiutano a uscire dall’homo clausus in quanto implicano regimi molto differenti di identificazione, ciascuno dotato di un proprio valore corporeo, emotivo e cognitivo: “Il modello pronominale ci aiuta a comprendere la natura prospettica delle reti di interdipendenza umana”. E quando un linguista come Émile Benveniste cerca di isolare “la base costante e necessaria della differenziazione tra individuo e società”, è attraverso la scelta del sistema pronominale che l’istanza comunicativa si enuncia come partner del dialogo della inter-comunità (sistema io/tu/noi) o come scrutatore dell’alterità (sistema dell’egli e del si).

Il Voi, come il Noi, è personale e reversibile nel punto di vista e di parola. Il Loro invece è impersonale e incomunicante. D’altra parte ogni pronome comporta e assegna la topica dei propri luoghi: il prossimale e il distale. Al Qui del Noi corrispondono il Lì del Voi – il prossimo che ci riguarda e ci incontra e il Laggiù del Loro –, il distante di cui ci stimiamo irresponsabili. Tra il Noi e il Voi (voialtri!) la reversibilità intersoggettiva e la compresenza consente l’investimento di valore, quindi l’amore e l’odio, l’altruismo e l’egoismo, mentre l’impersonalità del rapporto ai Loro assicura il loro anonimato e la nostra indifferenza. Si può dire lo stesso dell’istanza organizzatrice della cronologia: all’Ora che coinvolge le comunità collettive (Noi-Voi), si oppone l’Allora di un tempo disgiunto, neutro e irrilevante per il nostro agire e sentire.

Opposizioni prossemiche categoriali a cui si aggiungono le differenze di gradualità, l’eccessivo e l’insufficiente che Claude Lévi-Strauss chiamava “sistemi di riduzione”: il troppo e il non abbastanza prossimo o lontano tra gli attori (la loro prossemica), nello spazio e nel tempo. Mentre le prime, disgiuntive ed esclusive, stabiliscono limiti e frontiere, le altre ammettono la partecipazione e lo spostamento graduale delle soglie e dei confini.[6] Un modello aspettuale abbreviato per descrivere percorsi diversamente orientati nello spazio di senso (Hjelmslev): quello inclusivo dell’Integrazione – dal Loro al Noi/Voi e quello escludente dell’Estraniazione (dal Noi/Voi al Loro). C’è chi cerca una comunità politica o religiosa e chi vuole lasciarla: per esempio, chi opta per una cittadinanza e/o vuol diventarle straniero o apolide; chi aderisce a una fede o chi l’abbandona: il convertito e l’apostata. Trasformazioni di affetti e di valori che hanno le loro modalizzazioni e modulazioni: queste possono essere intensive e puntuali nelle durate oppure estensive e durative. Come la nostalgia, passione identitaria del radicamento nel Noi – per esempio in una lingua –, che viene vissuta nell’alterazione dello sradicamento: l’esilio individuale, la migrazione collettiva ecc. Ogni odissea narra un’assegnazione d’identità (Cassin).

 

2. L’identità transitiva, che è narrazione vissuta di azioni e passioni, può bloccarsi e disarticolarsi davanti al pathos inerente all’alterazione e all’alienazione. Con i luoghi di memoria, i cimiteri, i discorsi politici ufficiali e certi libri di storia, il Noi diventa privativo, “rinunciante” (Weber), “solitarista” (Sen). Per fondare circoscrive, include ed esclude, si inventa tradizioni compiacenti, si radica nell’autoctonia nativista – termine greco (Euripide!) per cui gli uomini nascerebbero dalla “loro” propria terra (Detienne) e coltivano politicamente il culto dei loro morti e i riti della morte (Dulce et decorum est pro patria mori). Il nazionalista, che si pretenderebbe ontologico, è un attivissimo semiurgo dell’appartenenza e moltiplica ogni genere di segni e simboli identitari: dizionari, grammatiche, testi e immaginari – prontuari di immagini –, mappe e bandiere, stemmi e uniformi, miti e cerimonie, inni, statue e monumenti (Anderson). E le difese immunitarie di procedure amministrative come lo stato civile e le carte d’identità!

Il “patriottista” personifica il Noi e gli presta tutte le proprietà cognitive e passionali di un Io individuale. E trasferisce l’attributo e l’idoneità nazionale da una generazione all’altra, generando il simulacro assoluto e permanente di un Noi identitario (we the people!). Per serrare le fila dell’identità e assicurarne la resilienza è necessario tuttavia, sull’asse della comunicazione, un terzo attante, un Destinante trascendente, garante di valori coerenti e fonte metalinguistica di valenze coesive. Concetti elitari che legittimano i sacrifici e bandiscono i sacrilegi, come le pretese enfatiche di universalità: mentre delimita ed esclude, il patriota si pretende universale e vuol agire “in base a principi cosmopolitici che pretendono di valere per tutta l’umanità” (Koselleck). Anche quando abbandona il modello statico delle radici, ricade poi in quello dinamico del fiume che, seppur sporadico e tortuoso, ha comunque un corso principale e un nome rispetto ai suoi affluenti.

Dulce est pro patria disipere, per la patria è gradevole produrre assurdità, come memorabilmente scriveva il filosofo illuminista C.M. Wieland. Ma il compaesano non è necessariamente un connazionale come  l’anticolonialista non è tenuto a essere un autoctono! Per opporsi all’attivismo identitario dello sciovinista settario non basta qualificarne la fisionomia come l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia, come facevano gli ebrei chassidim. Israele docet! Oppure dileggiare il sovranista come “cantante di opera buffa”. Il Mediterraneo ha cimiteri profondi! Meglio prestare attenzione a movimenti transnazionali, cioè ai “nazionalismi a lunga distanza” che caratterizzano i periodi di grandi migrazioni (Nathan).

Contro i repertori identitari di questo Noi egoista che ricusa o ignora il dialogo con l’Alloctono – come lo chiamano gli olandesi – non bastano i buoni sentimenti, di cui sono notoriamente lastricate le vie dell’inferno. Per accettare l’Altro, affinché l’Io collettivo sia responsabile e vulnerabile – che il Me diventi un Sé – non basta dirsi patriota, che è “per”, mentre il sovranista è “contro”. Né limitarsi a moltiplicare i punti esclamativi dopo i richiami inoperanti e magnanimi ai diritti dell’uomo, alla fraternità, all’eguaglianza. A rischio tra l’altro di scambiare lo Stesso con il Medesimo, cioè l’Universale dei valori etici e politici con l’Uniforme mondializzato dei consumi economici e culturali (Jullien).

Le culture, per la teoria, non hanno identità omogenee, ma dinamiche e trasformative del vivere insieme. Sono rese eterogenee dalle creazioni, ri-creazioni e negoziazioni incessanti condotte sui confini immaginari tra Noi e gli Altri: frontiere che sono spesso cicatrici di conflitti, anche “fratricidi”. Tutte le operazioni transitive, scomposizioni e composizioni, diventano possibili su questi limiti discordanti e condivisi: aperture e chiusure, concentrazioni ed espansioni, annessioni e distacchi, filtri e mescolanze. Lévi-Strauss distingueva tra culture partecipative o antropofaghe, che inghiottono l’Altro nell’autoctono, e quelle esclusive o antropoemiche, che lo rigettano nell’Alieno. Aggiungiamo le culture dell’incontro, per cui le non persone dei Loro si trasformano in un autonomo eppur reciproco Voi. Col rischio permanente, però, sottolineato da Bauman, di “proteofobia”, il timore non già del Lontano Alieno, ma di quel Voi, troppo prossimo ma così diverso nel suo punto di vista, che Simmel esemplificava come straniero interno nell’ebreo europeo (Trivellato, Jabès). Differenze che si somigliano, connivenze che si stratificano nelle tensioni della convivenza. Un sentimento di fiduciosa diffidenza che la lingua latina codificava nel termine ambivalente hostis, ospite e ostile.[7] Ogni cultura dominante genera culture dissidenti e ogni mancata integrazione provoca integrismi.

 

3. “On ne saurait revenir sur soi sans avoir commencé par se porter” (Billeter).

La nozione di identità è concetto obeso per i troppi strati semantici (Detienne). Che fare per non essenzializzare, per non rassegnarsi a essere soltanto un Quiproquo, vestito della livrea versipelle d’Arlecchino? E come evitare l’“acosmismo”, come Hannah Arendt chiama “la fuga nella storia mondiale”? Per mirare a una “universalità laterale” (Merleau-Ponty), una via praticabile è quella di penetrare una cultura a partire da un’altra, così come si apprende una lingua a partire dalla propria lingua materna? Un monolinguismo con alterità inclusa? Un monoculturalismo plurale? Un cosmopolitismo comunitario?

Senza illusioni di armonia, hic et nunc – nel presente dell’ora e nella presenza del qui –, che fare? Per non restare Tra noi, ma Fra noi e gli altri, l’identità transitiva richiede di trattare le istanze differenziali come risorse, traducendo il Noi nel Voi vicino (prossimale) e nel Loro lontano (distale), in tutte le lingue (Traduzioni) e in tutti i sistemi di segni (Trasduzioni e Trasposizioni).[8]

Tradurre è filtro e mescolanza insieme! Tenendo ben presente che le buone traduzioni non sono quelle “fedeli”, ma le imperfette che arricchiscono le lingue e le culture, di partenza e di arrivo, di “fonte” e “di destinazione”. Come dicono i sociolinguisti: con gli allofoni bisogna costruire “cornici di partecipazione” e incrementare gli “aggiustamenti collaborativi situati” per ottenere ibridazioni e creolizzazioni (Duranti). Una “prova dell’estraneo” (Berman) per incrementare la semio-diversità.

L’uomo ha il logos, è certo, ma in quanto poliglotta. Non ci sono lingue umane e neppure culture radicalmente intraducibili. Bisogna quindi moltiplicare i mediatori culturali, i passatori linguistici, i diplomatici attenti ai reciproci significati; non i prestanome e i semplici passaparola o passacarte, ma tutti quanti favoriscono la duplicità dell’incontro, in tutti i sensi del termine. Non senza calcolare le incognite promiscue della doppiezza: “falsi amici”, metechi, liberti, ostaggi, esiliati,[9] rinnegati, reduci, infiltrati, agenti doppi, traditori e impostori che ci aiutano a trovare le distanze che ci separano da noi stessi.

A partire dalle risposte che suscitano, essi possono diventare, nella tensione instabile delle istanze “pronominali”, le risorse “cosmopolitiche” potenziali per il cambiamento e la trasformazione: i diplomatici e le loro variegate risorse comunicative (Anderson, Stengers, Uspenskij, Fabbri).[10] Un caso esemplare è la lingua franca parlata nel corso della secolare guerra di corsa mediterranea tra gli Stati barbareschi e quelli europei. Un pidgin intermediario a base romanza (italiana, spagnola, provenzale) che permetteva diplomazia e commercio di merci e di schiavi nel corso di un conflitto permanente. Un idioma ben presente nelle culture europee e assente in ogni documentazione degli arabo-turchi che la praticarono fino all’occupazione coloniale (Dakhlia).

Pessimismo semantico della diagnosi e ottimismo pragmatico della soluzione? È vero che le traduzioni, come la storia, sono sempre da riscrivere, perché sempre cambiano le lingue tra cui si praticano, ma è proprio “l’imperfezione della traduzione a garantire la vitalità delle culture” (Lotman). E se c’è un intraducibile, un alieno impersonale e perturbante che il Noi può solo ospitare e non riesce ad assimilare né a espropriare o ostracizzare (Preta), lo saranno gli sforzi stessi del tradurre a provare la conversione possibile delle allergie in sinergie.

La molteplicità delle forme di vita implica infatti diversi dispositivi delle istanze enuncianti e vari processi semiotici – dai marchi di fabbrica ai pettegolezzi da tavola – di integrazione e rispetto, stigmatizzazione ed esclusione tra l’Ego e l’Alter, tra il Noi e i Loro (Elias, Scotson, Sassen).[11] Oltre al noto esempio dei fuori casta indiani – i cosiddetti intoccabili –, si pensi al rituale interattivo dell’espulsione dei capri espiatori, in cui uno o più membri già inclusi nel Noi vengono “debraiati” nell’impersonalità del Loro (Girard). Tra i tanti riti di messa al bando, espulsione, scomunica, si consideri il Voi negativo che contrassegna il malocchio nella cosiddetta jettatura (Benvenuto).

Sui riti di aggregazione dello straniero, ritenuto talora come sacro, che dopo la separazione e la marginalizzazione vanno dall’asilo all’affratellamento, dall’iniziazione fino all’adozione, si veda invece il classico I riti di passaggio di Arnold Van Gennep.

Comunque sia, l’identità privativa dei pretesi autoctoni – mitideologia antesignana delle purificazioni etniche – va “debraiata” in ogni momento transizionale e liminale: per esempio nei Margini sistemici di biosfera, economia, società come anticamere in cui l’espulsione è all’opera (Sassen). Per spostare l’“accento di senso” – nella prosodia discordante dei contenuti ideologici – va colta ogni opportunità (ob portum) di dialogo. Cioè ogni momento in cui si levi il buon vento che conduca alla contingenza di un porto.

D’altronde, “le problème de l’identité se retrouve partout” (Saussure).

[uscito su “aut aut”, 385, 2020]

Riferimenti bibliografici

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[1] Per distinguere identità e appartenenza Michel Serres definisce l’identità nei diversi campi: “Logico per il principio e la sua tautologia, l’invarianza temporale per contraddizioni; sociopolitico, nella critica del razzismo e il processo d’esclusione; biologico per il sistema immunitario e la sua fluttuante eccezione uterina; psicologico, poiché definisce una libido dell’appartenenza; medita sullo spazio e sul tempo e identifica infine l’io in tre stati: una plasticità vergine, un paesaggio complicato, delle trasformazioni vibranti tra una fase e l’altra”.

[2] Per un’eloquente valutazione contemporanea dell’identità, cfr. Bauman: “Delle due l’una: o l’identità viene imposta da una posizione sociale che offre scarsa o nessuna possibilità di scelta e dunque somiglia a una gabbia da cui si sogna di evadere […] o l’identità è qualcosa da cercare, valutare, scegliere liberamente e possedere e dunque nel nostro universo dedito alla decostruzione dell’immortalità viene resa fragile e sfiduciata: la fragilità […] nega ai suoi possessori il minimo momento di requie e li spinge invece a oscillare nevroticamente tra atteggiamenti aggressivi o depressivi. […] La vita è trasformata in una caccia interminabile e mai probabilmente appagante. […] Le persone tendono a vivere tutti gli scontri interpersonali e di gruppo come ‘conflitti di legittimazione personale’ […] lottano per quello che sono piuttosto che per quel che vogliono”.

[3] È l’esperienza antipredicativa che Alfred Schütz, il fenomenologo studioso di segni, definisce “atteggiamento verso il Tu”. Concetto limite (Husserl), il Tu è vissuto come il coesistere di una immediata datità. Quanto al Noi, si tratta di un’esperienza dell’Io fondata sul mondo ambiente in quanto parte del mondo sociale che ci è contemporaneo: “La fondamentale relazione del Noi mi è data col mio esser nato all’interno del mondo sociale ambiente”. Il mondo del Tu e quello correlato dell’Io si origina da quello del Noi, come esemplifica “la posizione e interpretazione di segni ai fini della comunicazione”. Per la psicologia, la percezione di un Io indipendente dal Noi è possibile soltanto nell’allucinazione e nel sogno (Sacks).

[4] Goffman ha ricostruito una politica connotativa dell’identità di cui ha individuato sommariamente i segni – occasionali, come punti, lapsus, o permanenti, come i “simboli di stigma” ecc., sottoposti a regimi pubblici di visibilità o intrusione. Ha proposto una tipologia transitiva – identità sociale, identità personale – o riflessiva – identità dell’Io o del sentito. Costrutti interattivi virtuali, socialmente significanti da realizzare attraverso tattiche comunicative di allineamento o di passaggio.

[5] Buber parlava di un “Noi essenziale” quando include il Tu: “Soltanto uomini capaci di dirsi Tu l’uno all’altro possono dirsi veramente Noi, l’uno con l’altro”, ritrovando l’ipotesi di Elias, per cui esisteva un ideale del Noi e non dell’Io, come riteneva Freud. Sulla radicale alterità provocata invece dallo smarrimento del Noi, si veda il tono leopardiano con cui Kafka, interrogato sul movimento dadaista, rispondeva che più che dada, Tzara e Picabia gli sembravano gli accoliti di “Du-Du”, cioè del Tu-Tu. Allora: “Come trovare gli Altri se Noi stessi ci si perde? Gli Altri, cioè il mondo nella sua grandiosa profondità, si apre solo nel silenzio”, G. Janouch, Conversazioni con Kafka, Guanda, Parma 1991.

[6] Tra i vari modi in cui l’Io può farsi Altro, si veda Lévi-Strauss che interroga il fondamento pronominale dell’obiettività etnografica: “L’osservatore si riconosce come il proprio strumento d’osservazione; è evidente che deve imparare a conoscersi per ottenere da un sé, che si rivela come altro all’io che lo utilizza, una valutazione che diventerà parte integrate dell’osservazione di altri sé”. L’antropologo deve “alterare” il proprio Io per riuscire a descrivere l’alterità altrui. Nella stessa maniera va letta la riflessione di Norbert Elias sull’autodistanziazione come adozione di “un doppio punto di vista della terza e della prima persona”.

[7] Una tensione che può turbare e persino travolgere la personalità di chi si trova condotto in uno spazio culturale alieno, senza riuscire a “debraiare” la propria cultura e a “embraiare” quella altrui. Come il caso esemplarmente descritto del cinese Hu, condotto dai gesuiti in Europa nel 1722 (Spence). E dei tanti casi psichiatrici tra i migranti contemporanei (Nathan).

[8] “We are translated men” (Rushdie). Si va intanto generalizzando il movimento cosmopolita Transnation per cui gli scrittori di world literature scrivono nelle lingue dei paesi di cui sono ospiti. Per Umberto Eco, l’autore di Dire quasi la stessa cosa, la lingua dell’Europa non è o non sarà l’inglese ma la traduzione.

[9] “Raffinato è l’uomo per cui la patria è dolce, coraggioso è quello per cui ogni terra è una patria, ma perfetto è colui per cui il mondo intero è un esilio”: così Eric Auerbach, nella sua Filologia della letteratura mondiale, citando il teologo Ugo di San Vittore che riassumeva la visione cristiana della vita terrena come peregrinatio. D’altronde patriottismo ed esilio non si escludono; Thomas Mann, in California durante la Seconda guerra mondiale, alla domanda dove fosse ormai la cultura tedesca rispondeva che essa era dove lui si trovava. Sull’esilio cfr. anche P. Fabbri, “L’esodo e il riso”, in E. Tadini et al., I Trittici, Studio Marconi, Milano 1990.

[10] Nel capitolo “Sul tradimento dei diplomatici”, Isabelle Stengers caratterizza il diplomatico come il tipo psicosociale di ricercatore “cosmopolita” che non squalifica le pratiche che respingono l’esistenza di un mondo unico. La sua ardua attività lo espone però all’accusa di tradimento. La diffidenza di coloro che egli rappresenta fa parte infatti dei rischi e vincoli del mestiere, ne fa la grandezza e la tensione. Da una parte egli appartiene al Noi di cui ha la rappresentanza, ma dev’essere anche il partner affidabile di altri diplomatici che interpretano altri Voi. Il diplomatico quindi è colui che deve tradurre e quindi tradire, o meglio “che teme di tradire, eppure traduce”.

[11] Gli autori si interrogano sul “problema del come e perché gli esseri umani percepiscano un altro essere umano come appartenente al proprio gruppo e lo includono all’interno […], quando nelle reciproche comunicazioni dicono ‘noi’, mentre contemporaneamente  escludono altri esseri umani che percepiscono come appartenenti  a un altro gruppo e ai quali si riferiscono in modo collettivo come ‘Loro’”. Per contro Saskia Sassen insiste in maniera “de-teorizzata” sul ruolo che la finanza contemporanea ha nei respingimenti, nell’incarcerazione e nell’espulsione.

 

 

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