Andrà tutto… come prima
di Alessandro Di Grazia
Al punto in cui siamo dire ancora qualcosa di sensato sulla pandemia appare cosa piuttosto impervia. Approfitto di questo intervento leggermente fuori tempo per fare qualche riflessione che esula necessariamente, viste le mie scarsissime competenze, dal piano strettamente epidemiologico e sanitario.
Al di là dei tentativi di identificare alcuni nodi che hanno caratterizzato questo tempo – penso ad Agamben, a Esposito o a Badiou solo per citare alcuni esempi significativi – cercherei piuttosto, al netto delle emergenze, dei numeri e delle curve di diffusione, di cogliere alcuni aspetti sintomatici.
Il cosiddetto lockdown, ha fatto emergere infatti certi discorsi che hanno attraversato non solo i politici, che di professione si incaricano di utilizzare determinate retoriche, ma soprattutto la società civile e l’opinione pubblica, e che hanno messo in luce un diffuso sentimento di disagio per il nostro stile di vita.
La quarantena ha obbligato un po’ tutti, eccetto ovviamente chi svolge le professioni sanitarie, a riconsiderare criticamente la dinamiche in continua accelerazione della nostra vita, cosa che comporta una certa dose di iniquità. Una sorta di strisciante mistica della lentezza ha così invaso le nostre menti, tanto da farci considerare il virus oltre che un pericolo, anche come un’occasione provvidenziale, un aiuto a riumanizzare le nostre giornate.
Su una direttrice affine si sono articolate le riflessioni che hanno evidenziato il nesso tra abusi ambientali e insorgenza della pandemia. Per l’ecologismo, e non solo, questo evento era atteso. A mio avviso, in ciò è insita una tematica dal sapore laicamente religioso, dove il posto dell’economia divina, tema caro alla protopatristica, è stato occupato dall’immagine della terra come ecosistema globale in grado di rispondere con una sua intelligenza agli insulti inferti dall’avidità umana. A questa immagine, comunque non del tutto nuova, fa da contraltare, come una sorta di doppio, la desolazione di un papa solo sotto la pioggia che deambula in una piazza San Pietro deserta, a segno o simbolo che la salvezza non sta più dalla parte dell’invocazione dei santi, ma nella cautela dei comportamenti e nei provvedimenti sanitari. E questa si che è un’immagine nuova e ricca di echi profondi.
Infine, forse l’aspetto che ha mosso maggiormente il dibattito pubblico: la pandemia ha fatto esplodere determinate carenze del paese, già ben conosciute, ma per le quali l’inerzia degli amministratori è sempre stata garanzia di stabilità.
Dalla crisi del lavoro, alle crepe del sistema sanitario fino alla dannosa pastosità della burocrazia, tutto ciò, per un momento, ha vacillato, è entrato in una strana vibrazione. Perfino la scuola per un momento si è interrogata sul senso del voto, ciclico tormentone sulla valutazione, e sul senso degli esami. È stato un attimo, una contingenza discorsiva, una sintomatologia che rimanda a condizioni molto complesse e perciò stesso difficilmente dominabili e identificabili.
Insomma la pandemia ha innescato una sorta di sindrome di rinnovamento, ha ridato fiato a speranze ormai quasi sopite e alla voglia di un vigoroso cambiamento.
Da un certo punto di vista niente di più ambiguo e inconsistente, ma da un altro tutto ciò ci ha offerto lo spettacolo di qualcosa di abissale che si agita al di sotto di sintomi reali, che la spettacolarità del dibattito pubblico periodicamente agita, svuotandone quasi sempre il senso e sui quali le nostre coscienze precauzionalmente si assopiscono.
Un disagio diffuso, ormai quasi del tutto afasico, ha preso corpo per un attimo, facendo quasi sperare in una sorta di primavera europea.
Nonostante i talk show e altre miriadi di occasioni, una rappresentazione che contenga in sé la fattualità necessaria per dare concretezza al miraggio di una stagione di rinnovamento strutturale, di fatto, non si dà. Un vero progetto politico o un discorso che permetta di incarnarlo è qualcosa, al momento, di inaudito.
Come sempre il popolo, anche se è il popolo di internet, quasi un ossimoro, pur nella confusione e nelle incertezze, perfino nelle manifestazioni popolar-sovraniste, e forse soprattutto in queste, ha il sentimento per tali questioni, ma non il discorso relativo; per questo il sentire dell’opinione pubblica è massimamente manipolabile.
Illudersi sembra essere la cosa più certa. Mi viene in mente un intervento di Nadia Urbinati che mercoledì 20 maggio a Vicino/Lontano, oltre alle molte cose interessanti dette, è anche incappata, a mio avviso, in una di queste facili illusioni: il tempo del Covid avrebbe contribuito a smorzare la virulenza di posizioni ostili ai cosiddetti migranti e che il senso di responsabilità mediamente è aumentato sotto la spinta del pericolo. Il nemico comune consolida l’identità di gruppo, si sa, ma c’è da riflettere se il momento del rischio ci mette al riparo dal rischio dell’eccesso di immunizzazione sociale. Io, che scrivo da Trieste, so, ad esempio, che le persone che percorrono la rotta balcanica a piedi fino alla nostra città, lo snodo più importante in Europa per chi vuole poi proseguire verso altre destinazioni più appetibili, sono oggetto di continue vessazioni da parte dell’amministrazione locale, che proprio in questi giorni ha chiuso l’Help Center a fianco della stazione ferroviaria, uno dei luoghi più importanti di prima accoglienza e di smistamento delle persone e delle risorse a esse dedicate. Queste persone senza alcun diritto, veri modelli di homo sacer, hanno subìto più di tutti i disagi imposti dalla quarantena: a loro è quasi del tutto negato un tetto sotto cui ripararsi e sono indotte a vivere in condizioni igienicamente improponibili, rese ancora più gravose dal rischio di contrarre la malattia. Tutto ciò, assieme agli umori feroci di molte persone, in realtà è ed è sempre stato lì: il virus non ha reso migliori queste persone. Invece i riflettori su tale situazione si sono oscurati grazie alle preoccupazioni del contagio ed ecco che l’assenza di rappresentazione diviene inesistenza, una trappola in cui, di certo, noi tutti, assieme a Urbinati, cadiamo di continuo. Si tratta di un esempio che mi serve per concludere.
Come mai dalla primavera europea, obliati nel giro di pochi giorni, siamo passati senza troppi contraccolpi, al solito tran-tran, all’ordinaria scazzotata politica, alle preoccupazioni del lavoro, ai desideri da soddisfare e tutto il consueto armamentario che connota quella che sembra la nostra solita vita?
Il fatto che sia la solita non ci dovrebbe preoccupare se non per il fatto che si tratta di una malattia ormai asintomatica, che si è rifatta viva unicamente a causa di un pericolo di morte solo sfiorato. Solo per fare un esempio, di certo non l’unico possibile, vediamo come la retorica patriottica, per me sempre inquietante e violenta, viene utilizzata da FCA per promuovere l’ultimo modello di Jeep, pressapoco con queste parole: “Gli italiani ce la fanno a trovare la loro strada e se non la trovano se la creano”, con ciò suggerendo l’immagine di un popolo crossover, che, al pari della Jeep, è in grado di percorre sentieri non battuti, impervi e imprevedibili: un popolo fuori-strada insomma.
Andrà quindi tutto come prima, anzi più di prima. Il vero cambiamento – un falso movimento – è l’intensificazione di tutti i processi già in corso. La domanda ora è: come mai dal momento dell’effimero risveglio della nostra primavera, siamo ripiombati senza colpo ferire nel nostro sonno e quasi senza accorgercene?
Solo rispondendo a questa domanda possiamo crearci la misura del da farsi, tutto da inventare del resto, se non vogliamo che ogni primavera sia un semplice esercizio di mentalità.
Abbiamo a disposizione una modellizzazione della dinamica degli equilibri dei sistemi complessi che prende il nome dal suo scopritore: si chiama legge di Pareto, che non è una vera e propria legge, ma un’elaborazione teorica empirico-induttiva. Essa ci dice che un ristretto numero di cause produce una grande messe di effetti e che questo rapporto tende a determinate percentuali verificate ad esempio sui grandi numeri relativi alla macroeconomia, alla gestione della cittadinanza e alla distribuzione delle risorse. In particolare un’analisi di diverse circostanze storiche catastrofiche come le rivoluzioni, indica che i loro presupposti vanno ricercati nell’infrazione del rapporto cosiddetto 80/20 I sistemi cioè naturalmente tendono ad assestarsi nella zona che verifica che il 20% delle cause producono l’80% degli effetti sul totale degli eventi assunti. Così nella distribuzione delle risorse pubbliche il limite di tenuta del sistema sociale è appunto costituito dal 20% delle ricchezze in mano all’80% della popolazione e l’80% delle ricchezze in mano al 20% della popolazione. Storicamente al di sotto di tale soglia il sistema va in crash, gli equilibri si spezzano generando quelle turbolenze che si intensificano fino a generare delle vere e proprie rivoluzioni, o comunque rivolgimenti violenti. Fino a ieri però! Infatti la teoria empirica è stata contraddetta dalla svolta digitale della società ed è universalmente riconosciuto che la legge di Pareto oggi non è più applicabile. L’Europa è uno di quei sistemi in cui tale soglia è stata infranta, si parla del 18/82, mentre per gli USA i calcoli si attestano a un rapporto 17/83. Nonostante ciò nessun serio pericolo ne è derivato per i vari governi. Abbiamo così un indicatore preciso della novità assoluta che rappresentiamo per la storia. L’occidente si connota oggi quindi come una sorta di equilibrio patologico precario e allo stesso tempo cronico, in grado di infettare, come un virus ogni sistema.
Il modello chiave di questa dato di fatto è rappresentato dalla new economy. Essa sembra in grado di assorbire qualsiasi contraddizione sociale; per new economy non è da intendersi solo l’insieme delle transazioni materiali dell’e-commerce, ma soprattutto le transazioni immateriali, come le narrazioni, le immagini, i filmati e così via.
Infinita energia viene dedicata al godimento di questi beni, del tutto scollegati da ogni forma di territorialità e di corporeità. Mentre il modello industriale del capitalismo prevedeva la grande produzione di un numero limitato di oggetti destinati alla massa dei consumatori, oggi si producono moltissimi oggetti – sia materiali che immateriali – tendenzialmente destinati a ciascuno. Questa semplice constatazione, dalle gigantesche implicazioni, basta per rendere pressoché inutilizzabili i concetti di massa, di popolo e di classe. Non è che le classi non esistano, anzi esistono eccome, ma le loro rappresentazioni sono totalmente opacizzate e, quindi, in un certo senso, ne rendono la nozione del tutto superflua.
L’avvento del web ha prodotto lo spostamento dell’economia dai prodotti di massa ai prodotti di nicchia per tutti. Un processo definito dalla curva della cosiddetta coda lunga. La nicchia era sinonimo di lusso, appannaggio solo delle classi più abbienti mentre oggi la nicchia è il posto in cui ognuno di noi si può infilare e comodamente godere di ciò che gli sembra di dover desiderare. Un significativo esempio di imbastardimento tra territorialità e virtualità, tra consumo di massa e consumo di nicchia è Eataly, un perfetto esempio di snobismo di massa, due parole che fino a ieri costituivano una contraddizione insanabile.
L’insieme delle nicchie affini si chiama community, cosa che ha sostituito completamente il concetto di comunità. Mentre quest’ultima ha sempre mantenuto un pernicioso portato idealistico, la prima è totalmente priva di ogni messianismo e adeguata agli scopi che si prefigge. L’esempio più vistoso di questo passaggio è il lento ma inesorabile declino dell’importanza dall’industrialismo immateriale rappresentato dalla TV, di fronte alla miriade di offerte presenti sul web.
La new economy, in modo del tutto appropriato, è anche detta economia dell’abbondanza; se ricordiamo che Sartre, analizzando il capitalismo parlava di un’economia basata sulla rareté, cioè sulla penuria, giocando con un termine che richiama tanto la mancanza quanto la preziosità, abbiamo la misura di ciò che stiamo vivendo. Nell’economia tradizionale lo scambio può esserci solo perché qualcosa manca o è difficilmente reperibile. Oggi il perfezionamento dell’economia immateriale dischiude la possibilità dell’accesso universale a ogni bene.
Questo, a metà degli anni ‘90 è stato perfettamente visto, direi profeticamente, da McCarthy e Andersson, i veri iniziatori dell’e-commerce e, prima di loro dall’inventore della nozione di Next economy, Paul Hawken che già nel 1983 aveva intercettato la tendenza del commercio a fare a meno delle mediazioni classiche.
Quello che essi non avevano visto, e che oggi è all’ordine del giorno, è l’effetto depressivo che tutto ciò implica: essere consumatori attivi, e non più passivi, ci ha gettato in un orizzonte inaspettato e irto di nuovi pericoli. Ogni desiderio può essere tappato se non proprio soddisfatto, ogni tensione sociale può essere così assorbita e controllata. Il tempo del Covid è stato soprattutto il tempo dei digital meetings e di Netflix. In tempi di assenza di lavoro non si scende in piazza ma si sale su una piattaforma. L’utilizzo e la gestione di queste forme immateriali di scambio, permette di gestire in modo assolutamente efficace il risentimento, niente di meno e niente di più.
Tutto ciò ha dei meriti indubitabili e anche dei vantaggi, che sarebbe stupido e ideologico non tenere in considerazione; ma essi sono accompagnati dall’impressione piuttosto forte di essere dei drogati in stato di dipendenza. I digital devices sembrano in grado così di affrontare la sfida di ogni tensione, di ogni possibile contraddizione, permettendo al sistema di scendere al di sotto del fatidico 80/20. È al di sotto di questo rapporto che le derive antidemocratiche e il controllo capillare della popolazione si rendono possibili senza grossi contraccolpi. Ma per riconquistare una qualche forma di cittadinanza autentica, tutta da reinventare oggi e per la quale non abbiamo ancora un discorso adeguato, non possiamo affidarci ai linguaggi provenienti dalle esperienze sociali del ’900. Sono armi spuntate, discorsività che rappresentano un ricordo, per nulla l’attualità. Ecco perché la primavera europea si è dissolta come neve al sole, lasciando niente più che una traccia onirica in tutti noi.
Erano lacrime di coccodrillo, evaporate ancor prima di cadere a terra.
31 maggio 2020
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