Scrivere il virus
di Pier Aldo Rovatti
Nonostante le librerie chiuse c’è una grande produzione di instant books sull’epidemia. Saggisti e scrittori avvertono quel bisogno di riempire di senso il cosiddetto “nemico invisibile” che tutti avvertiamo leggendo i giornali, ascoltando la televisione, parlando al telefono, sfogliando i social. Libri che circolano online o che, comunque, si riesce a ricevere pur nel distanziamento sociale. Libri che i tempi vuoti della quarantena permettono agli autori di scrivere in velocità e ai lettori, a loro volta, di essere disponibili ad apprezzare. A ciascuno di noi importa capire gli effetti del coronavirus, dunque accogliamo con favore chi ci aiuta con intelligenza a rispondere a tale esigenza.
Qualcuno di noi, con spirito critico e magari autocritico, forse coglie una specie di compulsività che innerva questa frenesia dello scrivere e del leggere. Come se il nutrimento di informazioni e di riflessione che ci arriva di continuo fosse necessario ma anche un poco eccessivo, vogliamo saperne di più, siamo curiosi di ciò che pensano letterati, psicologi, filosofi, studiosi delle società, tuttavia ci chiediamo anche di che natura sia la spinta che porta a questa inedita fretta di scrivere.
Nel mio piccolo mondo, che è quello di una rivista trimestrale di filosofia abbastanza quotata, ho incontrato una questione analoga, quando abbiamo deciso – in una riunione redazionale telematica – di ritardare un progetto di fascicolo sulla pandemia e di aprire invece subito uno spazio di discussione sul sito della rivista.
Il problema della fretta di scrivere, alleata alla fretta di leggere, non si sovrappone, in negativo, alla qualità delle numerose pagine di cui già disponiamo e la cui curva ha ancora da crescere prima di raggiungere un suo picco. È solo un avvertimento, non facile da tenere presente nella situazione che stiamo vivendo. Un lieve campanello del cui suono possiamo forse disinteressarci, almeno per ora.
Paolo Giordano, narratore già molto noto e non privo di interessi matematici, nel suo saggio intitolato Nel contagio (Einaudi) si riferisce a una parte di popolazione che chiama i “suscettibili”, quel grande noi che non appartiene ai contagiati, e già questo termine riesce a far entrare un poco di aria nello spazio chiuso dei numeri che ormai si affollano ogni giorno nelle nostre teste con grafici, curve e quant’altro, quasi per distanziare paure e lutti, senza comunque riuscirci.
Il breve scritto, che prendo qui a esempio, non ha niente a che fare con i tentativi “filosofico-politici” che vorrebbero ricavare una quadra teorica riflettendo sull’emergenza globale e le sue conseguenze sui limiti che si stanno preparando a danno delle nostre libertà individuali e della socializzazione in cui confidiamo. Penso al volume di Slavoj Žižek (dal titolo lapidario, Virus, edito da Ponte alle Grazie) in cui si intravvede nel prossimo futuro una “strana” forma di comunismo, al quale risponde il saggio di Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano che insegna a Berlino (il suo scritto si trova nella pagine del quotidiano “Avvenire” del 7 aprile), contrapponendogli la società della “sorveglianza digitale”, cioè quella che ha permesso al collettivismo cinese di sconfiggere il coronavirus.
Scendendo da questi trampoli, il nostro sguardo si misura piuttosto con l’esperienza del “vuoto”, dando al vissuto soggettivo un’importanza preliminare. Questo è il tono di molti diari del distanziamento, come quello di Paolo Rumiz su “Repubblica”. Giordano inizia così: “Ho deciso di impiegare questo vuoto, scrivendo. A volte la scrittura riesce a essere una zavorra per restare piantati a terra. Ma c’è anche un altro motivo: non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi”. E conclude: “Contare i giorni. Acquistare un cuore saggio. Non permettere che tutta questa sofferenza trascorra invano”.
A me pare che, nella pioggia di parole che sta sommergendoci con un’ondata di guide alla conoscenza dei vari aspetti della pandemia (compresi i molti tentativi di spiegarci da dove nasce e in cosa consiste la paura e perché non dovremmo trasformarla in panico), una pagina leggera e rispettosa nel suo pudore narrativo sia preferibile a tanti precetti. Ciò che stiamo semmai cercando (come lettori ma anche come microproduttori di scrittura) è piuttosto una modalità che attenui e nel caso raffreddi la nostra ansia compulsiva di sapere tutto del virus.
La situazione cui andiamo incontro si profila molto pesante in termini di prezzi sociali che una quantità di soggetti dovrà pagare, ed è utile che il tempo per pensare che adesso abbiamo venga speso, più che nella fretta di acquisire verità, proprio nel tentare di comprendere, con la riflessione, qualcosa di quello che siamo diventati. L’espressione “cuore saggio” mi sa un po’ di retorica ma serve a rendere l’idea.
[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 10 aprile 2020]
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