Lettera a mio figlio (e a me stesso)
di Pier Aldo Rovatti
Caro figlio, anche se non hai ancora tredici anni ti saranno arrivati all’orecchio certi discorsi sul fatto che la figura del padre va sbiadendo e quasi rischia di svuotarsi. Lasciali perdere per adesso, sono pensieri di certa psicanalisi, forse utili ma anche un po’ fuorvianti. Ti sembrerà strano che mi rivolga a te non tanto per dirti che cosa significa essere un figlio, piuttosto per ragionare insieme su che cosa può voler dire oggi essere un padre. Sospetto che tu ne sappia qualcosa: chi altro meglio di te può restituirmi un’immagine non artificiosa di padre?
Interrompimi quando ti pare che mi invento una realtà che a tuo parere sta poco in piedi. Spero che ti sia accorto che a me, in quanto padre, interessa meno la trasmissione delle regole e importano molto di più gli esempi. Le regole rischiano di funzionare sempre come qualcosa che cala dall’alto, come una specie di decalogo: devi fare questo, poi quest’altro, e così via. Oltretutto, non saprei neppure stilare un simile elenco, per poterlo poi stillare nelle tue orecchie, sempre che tu sia disposto a darmi retta.
Il “nome del padre” – ecco parole adoperate dalla psicanalisi – mi pare qualcosa di vuoto, non saprei neppure quali regole metterci dentro. Mi chiedo poi se la società nella quale tu, io e tutti quanti viviamo ci aiuti in una ricerca di simili regole. È vero: possiamo raccoglierle facilmente, basta respirare l’aria che tira. Anche tu le avrai incontrate frequentando la scuola. La materna, le elementari, adesso le medie, poi ci saranno le superiori, poi… È impressionante la carriera scolastica che hai già attraversato. Ed è anche impressionante che lì hai vissuto molto tempo, una parte cospicua delle tue giornate di bambino e ora di ragazzo.
Volevo solo ricordarti che anche lì l’aria che si respira è quella di una società individualistica e competitiva, certo con qualche freno perché esistono i buoni maestri che cercano di mettersi un po’ di traverso rispetto a questa aria, che so, insegnandoti a non identificarti con il consumismo dominante e a non annegare nell’egoismo che produce. Inoltre, a scuola non si è mai soli: la parola “classe” non è granché, ma è una parola positiva.
Dunque, il padre che io bene o male sono per te credo che debba dare degli esempi, ma – attenzione! – quali sarebbero in concreto questi esempi? Se la mattina, alzandomi, dico a me stesso: “Oggi, cercherò di dare a mio figlio alcuni esempi virtuosi, perché organizzi con misura il suo tempo libero, perché faccia i compiti senza aspettare gli ultimi cinque minuti, perché limiti l’uso dei suoi strumenti digitali, non mangi né troppo né troppo poco, impari a usare un linguaggio decente e un comportamento rispettoso, eccetera eccetera”, ho forse programmato il compito del bravo padre?
Appunto qui sta il mio dubbio. Se davvero voglio fornirti dei veri e propri esempi dovrei darteli io stesso con il mio comportamento. Ecco la difficoltà, direi quasi una specie di salto mortale. Noi genitori (e osservo en passantche sia il padre sia la madre giocano questo ruolo scambiandoselo) siamo poco abituati a questo esercizio, pensiamo che gli esempi siano delle cose che basta dirle perché funzionino. Se io dico a Pinocchio “non dire bugie” e poi lui vede che le bugie circolano in abbondanza nella casa di Geppetto e sulla bocca stessa di suo padre, addio esempio.
Allora, c’è di mezzo un ostacolo grosso: fare il genitore non è così semplice, come può sembrare, perché occorre che ci rendiamo del tutto consapevoli di quello che noi stessi facciamo. È un compito molto difficile, non siamo abituati, anzi siamo diventati adulti senza alcun allenamento a osservare con attenzione chi siamo e cosa facciamo. Mica male come problema, se poi pretendiamo di trasmettere ai figli il nostro sapere e i nostri modi di vivere.
Ciò che invece di solito trasmettiamo è il fallimento, piccolo o grande, della nostra capacità di essere individui sicuri e consapevoli di sé. Comunque, il figlio prende dal padre (capiamoci bene: figlio sta anche per figlia e padre per madre) pezzi degli esempi reali che si trova di fronte: e sono questi che hanno valore, che si depositano in lui, interferiscono con i suoi comportamenti.
Le regole impartite col ditino alzato e ogni tipo di analoga “lezione” sono destinate a restare in superficie. Credo che forse sarebbe ancora peggio se penetrassero più in profondità. Ne sanno qualcosa coloro che per loro sfortuna hanno passato periodi della vita in istituti chiusi, ma anche la grandissima maggioranza cresciuti in famiglia aperte, con genitori che li amano e in case zeppe di libri, hanno da districarsi tra regole che non sono mai veri esempi e il “ricatto affettivo” (altro bel problema!) che rende più difficile il percorso della loro autonomia, creando doppi legami che possono durare tantissimi anni.
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 3 gennaio 2020]
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