di Pier Aldo Rovatti

 

L’esempio più vicino è quello della “dignità”, un valore morale in evidente regresso fino al punto di intitolargli un decreto (quasi si trattasse di dedicargli una via o una piazza). Più che restituire una qualche effettiva dignità ai lavoratori precari è sembrata un’iniziativa retorica. D’altronde, anche realistica se consideriamo che la dignità, al pari di tanti altri valori, è diventata qualcosa di vuoto e comunque di inattuale: una semplice etichetta che ormai si può appiccicare a qualsiasi prodotto per abbellirlo.

Ma ci sono tanti altri esempi più eclatanti. Recentemente si è dibattuto sul significato da dare alla parola “umanitarismo”, cui spesso si ricorre quando si cerca di qualificare l’atteggiamento che dovremmo avere nei riguardi dei migranti in contrapposizione al cinismo della cosiddetta Realpolitik. Anche qui, come accade per l’idea di “umanità”, ci si viene a trovare nel vicolo cieco di una categoria astratta che ormai non dice più quasi nulla, sia per coloro che ne invocano l’improbabile attualità, sia per quelli che vorrebbero superarne l’impasse facendola precedere da un “post” ingannevole (il “post-umano”, appunto, con cui ci si illude di dribblare la vacuità di ciò che sta prima del supposto dopo).

Chi non vorrebbe essere umano o umanitario di fronte a certe situazioni drammatiche? Il vecchio Nietzsche aveva avvertito con un grande cartello con su scritto “Attenzione!”; guardatevi – diceva tanto tempo fa – dal riempirvi la bocca con il comodo rimando all’“umanità” di un uomo ormai al tramonto, e non fidatevi di chi, per tappare il buco della propria evidente nullità o forse piuttosto per nascondere il desiderio di volerla diventare (“una volontà di nulla”, come ancora diceva con un ghigno), aggiunge un plus, traducendo l’umano in un “troppo umano” alquanto derisorio per la sua eccessività. Una vicenda che potrebbe infrangersi comicamente nella prosaica battuta “come è umano lei!” (quella del personaggio inventato da Paolo Villaggio).

Potremmo rincarare la dose passando ad alcuni sommi valori che la storia moderna ci ha trasmesso, come quelli di liberté, fraternité ed égalité, diffusi dalla Rivoluzione francese e diventati un paradigma etico per tutti noi. Questi valori si sono trasformati, piegati, svuotati in gran parte: la loro trasvalutazione corrisponde molto spesso a un affievolimento e a una deviazione fino al punto che stentiamo oggi a riconoscerli come modelli di comportamento condivisibili.

Cominciando dalla libertà, accade che tutti la desideriamo, ovviamente, ma nessuno sa indicarla davvero con precisione. L’idea resta potente e al tempo stesso appare sfumata e sfuggente, perfino adulterata, talora contraffatta. Mi capita sott’occhio una pubblicità che dice “la libertà è un lusso” e penso: come è possibile che la libertà si stia trasformando in un possesso così poco comune da essere paragonato a un privilegio materiale di pochi?

Quanto alla fraternità, c’è solo da chiedersi dove sia finita e se conservi tuttora un ruolo. Al presente è un’idea talmente sfumata da essere quasi irriconoscibile. È difficile credere che “il fratello” sia rimasto un valore morale quando si moltiplicano le lotte fratricide nella grande dimensione sociale, mentre nella piccola dimensione famigliare si accentuano invidie e rivalità. “Fratelli d’Italia” è l’incipit dell’inno nazionale, ma se l’italianità sta ancora a cuore a qualcuno, della fratellanza si sono smarrite le tracce.

Per non parlare dell’uguaglianza, quel mito della sinistra che ora sembra un idolo infranto, o peggio che ormai viene generalmente considerato come una illusione per anime semplici. I meno ingenui, infatti, sanno bene che la battaglia sacrosanta contro le disuguaglianze nel mondo non potrà avere come esito auspicabile nessun rinnovato comunismo, per il buon motivo che adesso contano solo le capacità individuali di scalare la società.

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 10 agosto 2018]

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