L’intellettuale riluttante – premessa
Questo libro è costituito da una sequenza di brevi “cronache” che accompagnano l’anno appena trascorso. Quarantacinque segmenti di vita italiana che scandiscono ciò che andava accadendo con un preciso sguardo critico.
Non ho voluto mettere date confidando nel fatto che la memoria del lettore, pur provata dallo stress culturale al quale siamo sottoposti, possa ancora orientarsi. Settimana dopo settimana, questo sguardo viene sollecitato dalla spinta degli eventi, piccoli e grandi, che si rinnovano e al tempo stesso si ripetono nella quotidianità.
È uno sguardo critico, preoccupato, dubbioso. Se possiede una mira, il suo obiettivo è di introdurre nelle cose una minima riserva di eticità, con l’intento innanzi tutto di attivare una riflessione al posto del lamento o della semplice presa d’atto.
Chi scrive desidera ringraziare Piero Cipriano per avergli suggerito il termine “riluttante”, che compare qui nel titolo accompagnato alla parola “intellettuale”. Oggi siamo un po’ tutti alla ricerca di una funzione intellettuale che sembra ormai sfuggente, assorbita dalle pratiche di potere o svuotata della sua capacità di graffiare. Le figure intellettuali in cui abbiamo creduto danno l’impressione di essere lontane, di un’altra epoca.
Cosa resta? Ci rimane, pressante, la voglia di coniugare politica e cultura, appunto in uno sguardo diverso che non potrà mai starsene fuori ma tenterà di collocarsi all’interno, scontando i condizionamenti che questo dentro esige e combattendoli, rifiutandoli, però a partire sempre da tale dentro.
Insomma un atteggiamento il meno idealistico possibile, un intellettuale che sappia anche che non c’è più un’onda collettiva che lo autorizza e nella quale può contare, e che dunque, in ogni caso, si ritroverà solo con se stesso e con il compito di costruire, quasi ogni giorno, una fragile trama di gesti e di relazioni. Ecco la base di ciò che chiamo “un’etica minima” e il senso di cui vorrei caricare la parola “riluttante”.
E questo vale per ogni settore. Sia per chi insegna – come ho fatto io stesso per una vita senza mai riuscire a rilassarmi o a gratificarmi troppo, sia per chi fa informazione e vuole ribellarsi al conformismo dilagante, sia per chi cura come nel caso dello psichiatra che non si arrende di fronte alle chiusure dell’istituzione e alla patologizzazione crescente della società.
E la filosofia, come entra nella questione? Alcune delle cronache che vi apprestate a leggere lo dicono chiaro, in tutte le altre agisce da sottofondo ben percepibile: si tratta nientemeno che del problema della verità. L’intellettuale in cui tento di identificarmi non può affidarsi ciecamente alla verità del suo sapere e tantomeno a quella del sapere in generale. Deve semmai accorgersi a sue spese che il cosiddetto pensiero binario è un clamoroso trucco nel quale ogni volta ci rifugiamo difensivamente, immaginando che tra il vero e il falso passi una netta linea divisoria, mentre risulta patente il contrario, e cioè che questo confine è fragile, vi avvengono continui movimenti di entrata e di uscita, e noi siamo proprio lì, completamente esposti.
Sopportare una simile condizione è stancante, almeno difficile. D’altra parte, cedere e smettere di “riluttare”, tirando i remi in barca come saremmo spesso tentati di fare, significa abbandonare ogni spirito critico per assaporare una pseudofelicità che di allegro non ha più quasi nulla e ha perso anche ogni sapore.
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Il 12 settembre l’autore ha parlato del suo libro con Felice Cimatti a Fahrenheit. Si può riascoltare il podcast della puntata su RaiPlayRadio.
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