di Pier Aldo Rovatti

 

I ponti non sono soltanto strutture architettoniche, imponenti come nel caso del disastro di Genova o più normali come tante sparse sul nostro territorio, che permettono la viabilità, cioè quel passare rapido del traffico che scavalca ostacoli naturali o parti di città. Ci stiamo ricordando tutti – in questi giorni convulsi in cui i problemi scoppiano a grappolo – che il ponte è un fatto di civiltà essenziale, un simbolo irrinunciabile e anche un aspetto determinante della storia più recente del nostro Paese. Unisce ciò che resterebbe diviso. Non cavalca semplicemente le vie ma le fa essere dove non esistevano.

Dopo il crollo del ponte di Genova sono partite le polemiche sui possibili difetti di costruzione, sulle manchevolezze relative alla tenuta, su una manutenzione discutibile, insomma sulle responsabilità di chi ha fatto il progetto e di chi ha chiuso un occhio di fronte agli avvertimenti sui rischi dell’usura. Abbiamo imparato la parola “stralli”, quei tiranti che sembrano essere i maggiori indiziati in senso tecnico. Poi abbiamo preso di mira le concessioni: si sta anche discutendo di risarcimenti, che saranno inevitabilmente inadeguati perché in molti hanno perso la vita e i danni alle abitazioni sono ingenti, e infine ci si è trovati nel dilemma antico tra privato e pubblico, se si debba continuare ad appoggiarsi alla privatizzazione di queste opere pubbliche o sia meglio che lo Stato se ne accolli peso e responsabilità, e quale poi debba essere il ruolo del profitto in tali imprese.

Insomma, riemergono alcuni importanti nodi irrisolti di un assetto socio-economico come l’attuale che non può fare a meno del mercato, ma neppure può affidarvisi completamente quando l’interesse comune è così alto e fondamentale. Procedendo così, e cioè generalizzando il problema, viene messa opportunamente (e finalmente, direi) a nudo la sostanza politica delle implicazioni, e il tragico evento genovese è destinato a rifrangersi su una miriade di altre situazioni, minori e solitamente taciute, che fanno parte di una lunga catena di inefficienze, localmente ben presenti ma assenti o spesso senza rappresentanza a livello istituzionale.

Proporrei comunque – e non sono certo il solo – di cogliere nella situazione contingente il significato decisivo che la questione stessa del ponte, del costruire ponti, ha per noi in una fase storico-politica nella quale sempre di più è la questione del muro, del costruire muri, il tema di cui si tende a parlare e che si considera urgente. E allora sarebbe necessario occuparsi più di “edificare” ponti materiali e sociali che di “erigere” muri che ci proteggano dall’invadenza degli estranei e garantiscano quella sicurezza e identità che adesso sarebbero sotto minaccia. Dal disastro di Genova tutti noi (e soprattutto la politica e i governanti) potremmo riuscire a estrarre un’indicazione di civiltà che riguarda l’unire piuttosto che il dividere.

Potremmo ritrovare il senso profondo di un’idea di ponte che ha a che fare con i viadotti maestosi e visibili che cavalcano le città, ma soprattutto che riguarda i ponti meno maestosi e meno percepibili che tengono assieme le nostre esistenze e senza di cui ci destiniamo all’isolamento e alla solitudine, nonostante i rimpiazzi delle tecnologie virtuali.

Quanti di questi ponti che tengono assieme le nostre vite stanno crollandoci attorno, senza che noi riusciamo o vogliamo rimetterli in piedi? Quanti tiranti della nostra socialità sono andati usurandosi senza che neppure ce ne accorgessimo? La nostra solidità sociale è a rischio e noi siamo assai poco preoccupati di prestarle la manutenzione che richiede. Cogliamo dunque l’occasione per far suonare un campanello d’allarme.

E, contestualmente, per accorgerci che l’apatia che ci avvolge e che ci espone ai crolli viene alimentata quotidianamente da una sollecitazione a fabbricare recinti individuali, modi di abitare e di vivere che assomigliano sempre di più a murature, muri che dovrebbero proteggerci, difenderci. Dall’esterno? Sì, certo, perché se ci rendessimo conto che si tratta di una paradossale e kafkiana protezione da noi stessi, come pare evidente, allora dovremmo valutare quanta forza ancora ci rimane per reagire, abbattendo o almeno incrinando i muri (che ormai stanno anche nelle nostre teste), e tentando di riedificare i ponti franati, magari per costruirne di nuovi e più robusti.

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 24 agosto 2018]

Tagged with:
 

Leave a Reply

Your email address will not be published.