di Pier Aldo Rovatti

 

Nella vignetta (di Bucchi) una delle due sagome nere chiede “Che aria tira?” e l’altra risponde “Aria compressa”. La buona satira sa sintetizzare le cose e comunicarne il succo in modo profondo e divertente. L’episodio di quel tale che spara dalla sua finestra con una pistola ad aria compressa a un migrante, che lavora lì di fronte arrampicato su un’impalcatura, è solo un referente in un insieme di significati. Il ripetuto tiro a segno con un bersaglio dalla pelle nera (altro che supposta “deriva” razzistica!), la diffusione delle armi in un paese che sembra voler competere con l’inflazione ormai accertata negli Stati Uniti (altro che uso sportivo per il piacere di sparare!), e la conseguente normalizzazione per decreto della legittima difesa (altro che conquista civile, visto che la facoltà di sparare alle spalle assomiglia a una regressione barbarica!).

Potrei continuare con questa sfilata metonimica che tocca situazioni e comportamenti che proliferano sotto i nostri occhi. Vorrei piuttosto indicare al lettore qualcosa che la vignetta richiama al di là di tanti, ormai troppi episodi, e cioè proprio l’aria che sta tirando, il clima in cui stiamo tutti vivendo, evocato proprio dall’immagine dell’“aria compressa”.

Era stato annunciato con molti strilli di trombe, ovvero sonanti annunci, un governo del cambiamento: una grande massa di italiani ci ha creduto con il voto del 4 marzo, stanchi di una politica che sembrava amorfa e inconcludente, lontana dai bisogni della gente. Ma quello che finora si è potuto vedere oltrepassa gli annunci e si ha ragione di chiedersi quali sia infine il senso da attribuire a tale “cambiamento”.

Se diamo peso alla metafora dell’aria compressa, essa si rivela ben più di una suggestiva immagine: come dire che dentro il cambiamento promesso troviamo molta più aria che sostanza e che inoltre, e soprattutto, si tratta di aria poco respirabile che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Liquefazione della politica e assieme compressione emotiva dei gesti che vi corrispondono.

Mi pare dunque che il cambiamento così sbandierato non risulti tanto e solo da decreti promessi a vantaggio apparente dei lavoratori precari, o dalle mosse spettacolari per arginare l’arrivo dei migranti e far sentire la voce dell’Italia in Europa, bensì piuttosto dalla creazione di un’atmosfera diffusa che alimenta le paure e le trasforma in un atteggiamento di inquietudine mescolata alla rabbia. Se fosse così, come credo, si starebbe producendo un modo di autorappresentazione, una maniera di vivere la propria esperienza di insicurezza, molto insidioso e trasmissibile per contagio.

Per molto tempo si è temuta l’esondazione dell’antipolitica, adesso è come se ci trovassimo di fronte a una “politica” prêt-à-porter, cioè facilmente indossabile da ciascuno, appunto una politica dell’antipolitica, senza che ciò appaia per quello che effettivamente è, cioè una clamorosa contraddizione. Tempo addietro si parlava di psico-politica, ora la parte psicologica sembra lasciar posto a un corposo consenso.

Anche Berlusconi, quando governava, fece circolare moltissima aria, alimentata da una macchina mediatica che poi tutti tentarono di introdurre nelle loro pratiche politiche: ma era un’aria abbastanza accogliente e che per molti risultò inebriante. Oggi l’aria che viene pompata, a suon di tweet spesso sgradevoli e qualche volta volgarotti, non ha niente di giocoso e tanto meno di esilarante: è piuttosto un’aria tossica, urticante. Inoltre viene quotidianamente compressa grazie a una tecnica ideologica basata su un’insistenza che talora sfiora la prepotenza.

Accade così che respiriamo veleni pieni di odiosità, ma soprattutto accade che, a forza di comprimerla, quest’aria può anche deflagrare e portare a una raffica di episodi e di esternazioni di tipo decisamente violento, che le cronache registrano e noi stessi apprendiamo con disappunto e vergogna.

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 3 agosto 2018]

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