di Pier Aldo Rovatti

 

Proprio quando le nuvole del razzismo si addensano e quelli con la pelle nera vengono presi di mira, come sta accadendo, fioriscono le dichiarazioni buoniste. C’è chi afferma: “Non sto certo a guardare il colore della pelle”. E, da parte sua, il nostro ministro degli Interni sopisce la polemica scoppiata sui social a proposito delle quattro ragazze nere che hanno vinto una prestigiosa medaglia ai Giochi del Mediterraneo, dicendo con un sorriso: “Se avessi occasione, le abbraccerei tutte”.

La logica buonista vorrebbe farci credere che la linea di demarcazione non passa per il colore della pelle ma separa legalità e illegalità, come dire: “Se sono legalizzati vanno bene ma con i migranti illegali il problema cambia e allora la pelle fa la differenza”.

Il razzismo è una vecchissima storia, al punto che quasi ci indigniamo se qualcuno ce la ricorda. “Razzista io? Mi offende solo l’idea”. Noi “italiani” saremmo ormai superiori, moderni, immuni da un simile arcaico sospetto. Magari, singolarmente, qualcuno resta ancora impigliato in questo retaggio, ci sono sempre dei ritardatari, ma nell’insieme parlare di razzismo viene considerato calunnioso e anzi si vorrebbe che la parola venisse cancellata, definitivamente espulsa dal discorso pubblico.

Ma non basta il gesto censorio per sciogliere una spessa e assai diffusa crosta di perplessità. L’argomento del razzismo come ritardo di alcuni individui rispetto a una generalità che sarebbe invece avanzata, se appare tranquillizzante  risulta al tempo stesso inquietante, perché attribuisce quasi un carattere privato a qualcosa che ha con evidenza una risonanza pubblica e perfino conserva un valore politico.

Il razzismo è un tratto che si manifesta di continuo nel linguaggio abitudinario, nelle pieghe dei discorsi, nell’uso quasi involontario di parole rivelatrici. Certo, appartiene ai singoli individui ma ha nella sfera pubblica la propria palestra. Non si tratta soltanto di lapsus (che pure punteggiano la comunicazione normale), quanto dell’effettiva incapacità di usare il vocabolario quotidiano senza ricorrere a modi di dire velatamente razzistici.

Seguo anch’io in televisione le godibilissime partite dei mondiali di calcio, e naturalmente ho gli occhi rivolti al gioco mentre con le orecchie mi faccio accompagnare dalla partecipazione emotiva dei commentatori: durante Belgio-Giappone, per fare un caso, questa emotività inclinava spesso a una condiscendenza verso i minuscoli giapponesi alle prese con avversari grandi e grossi. Normale, no? Appunto, si tratta di una normalissima inferiorizzazione dell’altro, nell’occasione di qualcuno molto evoluto, solo con la pelle virante al giallo, neanche di un nero africano poco civilizzato.

La domanda che allora mi faccio e che rivolgo ai lettori è come uscire dalla trappola che ogni volta il razzismo ci predispone. Risponderei con un gesto opposto alla rimozione del problema. Far finta che la sindrome razzista possa scomparire convincendoci che non esiste o che, se esiste, è solo una marginale sopravvivenza, finisce per rendere ancora più inquietante tale sindrome. Anziché cancellarla, la evidenzia. Bisognerebbe allora rivendicarlo come nostro questo impulso al razzismo, riconoscerlo, elaborarlo, tentare di farcene una ragione.

Sarà pure un residuo, comunque non è cancellato. Perché non venga del tutto risvegliato da chi ha interesse a trascinarci dalla sua parte politica, dovremmo anticiparlo: dire a noi stessi che non l’abbiamo ancora digerito e cominciare a fare davvero i conti con questa cattiva digestione. Se ammettessimo che esiste un “nostro” razzismo, che nessuno ne è davvero immune e che tutti siamo in qualche modo esposti, potremmo avviare un processo di consapevolezza autocritica, metterci in gioco in prima persona. Negando il razzismo come qualcosa che non ci tocca per nulla, ci chiamiamo fuori: peggio, ci disponiamo al di sopra di questo fenomeno. E rischiamo di precluderci ogni effettiva comprensione.

 

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 6 luglio 2018]

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