di Pier Aldo Rovatti

 

Era il 2003 quando uscì, postumo, l’ultimo album di Giorgio Gaber intitolato “Io non mi sento italiano”. Il brano che dà il titolo alla raccolta comincia precisamente così: “Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Viene immaginato come una lettera inviata da un cittadino comune al Presidente della Repubblica: “Mi scusi Presidente…”.

Sono passati quindici anni da allora, e tanta acqua sotto i ponti della nostra storia sociale e politica, ma questo incipit con quel che segue non è affatto invecchiato, forse ha guadagnato in attualità. Oggi, ogni tanto, tra un tavolo e l’altro, mentre erano alla ricerca della cosiddetta quadra per allestire un governo all’altezza dei risultati elettorali, i leader politici sono stati attraversati da un dubbio: “Non sarà essenziale avere un’idea di Italia?”.

Questo dubbio, durato lo spazio di un mattino – se vogliamo dargli un’allure letteraria –, appare completamente fondato. Se è restato vago e dunque non ha ricevuto l’importanza che merita, lo si deve al fatto che, ora come in passato, non si riesce a sbrogliarlo, e non solo per cattiva volontà. Sarebbe una “bella” idea, se potessimo farcela con chiarezza e in modo convincente, di solito invece ne è venuto fuori qualcosa di artificioso o, peggio, di retorico, una “brutta” poesia, come dicono le parole stesse della canzone di Gaber (che sarebbe tutta da ricordare per la sua perspicacia). Nel recente passato l’idea di Italia si è sposata soprattutto con l’idea di patria, con risultati che possiamo chiamare eufemisticamente “discutibili”, e adesso si tenta di nuovo di mettere in piedi una versione di tale connubio con l’etichetta del sovranismo.

Sarebbe forse il caso di fare molti passi indietro, ben prima del ventennio fascista intendo, e ricordarsi di un certo Carlo Cattaneo che parlava, senza retorica e senza ricorrere all’afflato della poeticità, dell’Italia appena costituitasi in nazione come di una “patria artificiale”, e lo faceva appunto con argomenti molto concreti. Si tratterebbe di verificare bene quanto si è radicalmente trasformato da allora, non nascondendoci il conseguente pessimismo.

Sembra così che il tentativo di riempire di realtà e di senso questa “idea” di Italia, che servirebbe per appoggiarci sopra una politica verosimile o almeno credibile, sia destinato – se anche volessimo provarci – a risultare uno sforzo inutile, ed è probabilmente questa consapevolezza che fa sì che ci si limiti di solito a una semplice invocazione.

Non è un caso che proprio ora qualcuno, come è accaduto nei giorni scorsi, vi rivolga la sua attenzione (cito per tutti quanto ha scritto Mattia Feltri su “La stampa” di Torino): ne uscirebbe un quadro abbastanza curioso secondo il quale l’Italia come nazione (e dunque anche come oggetto di identità e di identificazione generale) “non esiste”, né è mai esistita, perché gli italiani da sempre vivono una doppia e contrapposta vocazione: una vocazione, diciamo così, di tipo “universalistico” e una vocazione “particolaristica” supportata da conseguenti pratiche a livello locale. Sarebbe da sempre un nostro carattere storico e quasi “antropologico”.

Ogni tanto accade dunque che si vada a cercare un fondo che ci accomuni come italiani in tutti gli ambiti, quasi un tratto che ci singolarizzi e ci distingua dagli altri. Questa ipotesi dello sguardo strabico che guarda all’universale con un occhio e con l’altro sorveglia il particulare, possiede indubbiamente un suo fascino e sembra perfino in grado di spiegare l’incessante instabilità che effettivamente viviamo dal punto di vista dell’identità nazionale. Ma è anche opportuno chiedersi se questo bisogno di identità è così necessario come sembrerebbe.

Permettetemi di tornare per un istante alle parole di Gaber (e del suo coautore Sandro Luporini), non tanto a quel prevedibile “purtroppo”, ma a quell’ospitale “per fortuna”. Può darsi – naturalmente nel caso in cui condividiamo l’endiadi – che ci sentiamo fortunati di essere italiani, nonostante tutto e comunque in seconda battuta, perché avvertiamo proprio la capacità di sentirci insieme enfants du pays e cittadini del mondo, ma allora l’idea di Italia, così spesso retorica e sfumata, dovrebbe caricarsi, riempirsi di un contenuto in cui si riassumerebbe una lunghissima vicenda culturale capace di sormontare divisioni e differenze, disuguaglianze sociali e appartenenze particolaristiche tanto marcate da dare ancora coloriture diverse, perfino divergenti, alla mappa della penisola che abitiamo.

È una simile scommessa sulla storia culturale e artistica italiana che può unirci? Può darsi, anche se ciò che ci disunisce e ci destina a una specie di inesistenza è oggi la nota prevalente. Quel “per fortuna” rischia di restare sempre più sommerso o emerge con tantissima fatica in mezzo alla tristezza dilagante del “purtroppo”. Ma ciò che appare davvero difficile è tenere insieme in una medesima idea di italianità le due facce della medaglia.

[Uscito su “Il Piccolo”, il 18 maggio 2018]

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