di Pier Aldo Rovatti

 

Le parole che hanno trainato l’attuale scena pubblica sono essenzialmente due, “cambiamento” e “nuovo”. “Adesso si cambia”, dicono i leader politici usciti vincitori dalle elezioni di marzo. A questo monito corrisponde un desiderio di “nuovo” che si allarga ben oltre le specifiche case politiche: qualcosa che forse può essere meglio caratterizzato come un “empito”, uno slancio spontaneo, un impulso quasi liberatorio da parte di una massa di persone che esprimono così la loro stanchezza di restare in una situazione bloccata.

Vorrei qui tentare di rappresentare meglio tale atteggiamento guardandolo con gli occhi di chi non si considera né un militante dei Cinquestelle né un militante della Lega. Non penso alla posizione ingenua e distratta di coloro che si chiamano fuori, una sorta di popolo disinformato o semplicemente stufo. C’è infatti un altro popolo più consistente, al quale appartengono moltissimi italiani, che sembra avere abbandonato demotivazione e disfattismo per abbracciare una speranza di rinnovamento e identificarla proprio nell’inedita forma di governo che ora si annuncia.

Credo personalmente che tale anelito o speranza non verrà subito ripagata e vorrei aggiungere “purtroppo”, ma il punto significativo che mi interessa è proprio il fatto che si sia creato e diffuso un simile desiderio. Osservo, en passant, che esso ha unificato, per una volta, il cosiddetto uomo della strada, insomma il cittadino qualunque, con una certa élite intellettuale anche di sinistra, tutti d’accordo nell’affidarsi all’ipotesi del nuovo e alle promesse che potrebbe contenere.

Quasi si dia andata formando una vasta opinione popolare, una specie di “partito del nuovo” che agglutina le tante voglie di farla finita con governi che stazionano nei piani alti, sopra la testa della gente, a costruire maneggi di potere e a distribuirsi privilegi e prebende. Quasi si fosse resa finalmente disponibile una chance di democrazia e bisognasse prenderla al volo. Potremmo pensare che i recenti risultati elettorali, già come tali, testimoniano di questo desiderio diffuso. Tuttavia, non è solo una questione di voti e di percentuali: il fenomeno è assai più vasto e si configura come una tendenza dominante nella stessa opinione pubblica.

Il termine populismo ha tante facce e si è usurato da solo diventando – a mio parere – sempre meno decisivo per capire dove siamo. Risulta troppo schematico, troppo ideologizzato, ciascuno lo tira dalla sua parte e si corre inevitabilmente il rischio che diventi una parola equivoca e infine vuota. Il cittadino qualunque, se gli dici “populismo” non ti capisce (e ha perfettamente ragione, perché anche tu non hai un’idea precisa di quello che gli stai dicendo). Continua, però, ad afferrare con facilità la parola “popolo”. È strano perché gli uomini di cultura ritengono che si tratti di una parola che si è sfarinata e perfino dissolta nel corso della storia moderna.

Dove voglio arrivare con il mio ragionamento? A riflettere sul fatto che l’“empito del nuovo”, se sembra agevolmente smontabile come un impulso emotivo destinato a essere smentito e deluso non solo da quanto ci si attende da un governo ibrido, ma già da quello che si è visto dai faticosissimi preliminari, porta alla superficie un bisogno tutt’altro che vago e inconsistente. Con una novità importante che non ci deve sfuggire: l’alimentarsi di una rinnovata fiducia – velleitaria quanto si vuole – nella possibilità di essere governati decentemente, cioè con un minimo di democrazia reale.

Proprio nel momento in cui la sinistra istituzionale dà segnali di sgretolamento e dovrebbe allora aprirsi un buco di credibilità nella cultura che le corrisponde, la débacle elettorale ha paradossalmente aperto uno spazio di relativo ottimismo civile, certo tutto da verificare. Già fin d’ora, di giorno in giorno, la promessa del nuovo sembra attenuarsi. “Aspettiamo di vederli al lavoro” è il mantra che si trasmette da bocca a bocca, mentre le nubi economiche e sociali e i dubbi sui costi di avventate mosse programmatiche cominciano a diventare preoccupanti.

Potrebbe insomma accadere che la voglia di nuovo venga presto frustrata, ma non credo che l’apertura di credito – per dir così – che la produce possa riassorbirsi tanto in fretta. Se ci lamentavamo, ancora ieri, di una generale demotivazione politica che toccava spesso le soglie dell’astensionismo, non c’è dubbio che adesso si registri piuttosto un clima di attesa. E allora mi pare difficile pensare che tutto venga cancellato in cinque minuti e che il “popolo”, quello reale costituito da soggetti concreti, dopo essere stato tanto evocato e blandito da un’infinita campagna elettorale, esca di scena in silenzio.

Potrebbe magari levarsi un coro di voci: “Allora, dov’è il nuovo che ci avete promesso?”. Forse coloro che saranno alla guida del governo si industrieranno per dribblare una simile domanda chiedendo pazienza e senso dei limiti con abili giravolte populistiche, ma quella voglia, quell’empito, quel desiderio di nuovo – una volta accesi, anche se con molta retorica – potrebbero non spegnersi e produrre effetti virtuosi non prevedibili.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 25 maggio 2018]

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