La morte di Gillo Dorfles, avvenuta il 2 marzo 2018, è stata accompagnata da un coro unanime di elogi per la sua attività poderosa di innovatore nel mondo della critica d’arte e dell’estetica. Non ci si è dimenticati di ricordare l’uomo straordinariamente gentile e raffinato, insieme al pensatore originale, mai chiuso nella propria disciplina, bensì sensibilissimo a realtà culturali anche lontane dal suo campo specifico di lavoro…

Mi unisco toto corde a questa scia di elogi. Ho avuto la fortuna di conoscere da vicino Gillo Dorfles e di apprezzarne le virtù. Protagonisti così ricchi, intelligenti e generosi di sé, sono oggi delle perle rare, e forse addirittura rarissime se si considera il suo stile schivo di comportamento, senza una traccia di presunzione e di compiacimento egoistico, anzi piuttosto defilato e insofferente alla luce dei riflettori. Vorrei qui aggiungere solo qualche aspetto non secondario della sua interminabile biografia.

Quando l’ho incontrato, all’inizio degli anni sessanta, era molto prossimo a Enzo Paci e alla rivista “aut aut” fondata dieci anni prima. Anzi, bisognerebbe ricordare quanta importanza avevano i temi artistici in quella prima fase della rivista, e non è certo un caso che Dorfles vi appare subito nel ruolo di caporedattore e riversa sulle pagine di “aut aut”, allora mensile, un’attività senza sosta di analista attentissimo ai diversi fenomeni artistici di quel tempo. Con Paci aveva stabilito una vera sintonia, che comunque non gli impediva talora di sospettare di un uso troppo marcato della fenomenologia (e lo dirà con la consueta chiarezza quando più tardi dedicherà a Paci un appassionato omaggio in cui lo definisce “maestro” – cfr. “aut aut”, 214-215, luglio-ottobre 1986).

Ma ciò che voglio anche ricordare, e che mi sembra sia stato lasciato finora un po’ in ombra, è il Dorfles insegnante di cui ho fatto direttamente esperienza a Milano e che poi ho ritrovato a Trieste, io giovane collega, lui che mi aveva aiutato – senza mai nulla chiedermi – a trovare un’occasione di insegnamento dopo la scomparsa di Paci, e che addirittura mi propose di dividere con lui la propria stanza-ufficio all’università. In tutto quel periodo, fino al suo pensionamento, ho avuto modo di capire che la vita accademica poteva essere ben diversa da quel luogo di gelosie, conflitti, accaparramenti, ossessioni da concorso, che quotidianamente si rivelava ai miei occhi forse troppo ingenui. Con una posatezza, alla quale non veniva mai meno (pur talora arrabbiandosi, come capita a ciascuno), Dorfles mi insegnò in che modo si poteva insegnare, con passione ma senza travalicare mai i limiti richiesti dalla professione del docente. A lui riusciva facile e gli studenti lo adoravano perché li accompagnava senza traumi, lezione dopo lezione, a percorrere alcuni sentieri del sapere. Mentre uno come me, che voleva bruciare i tempi, faceva molta fatica…

Non so in che misura la mia conversione al pensiero debole e all’etica minima (ancora adesso, dopo tanta acqua sotto i ponti, sto ancora prendendo le misure) abbia a che fare con il fortunato incontro con Gillo Dorfles. Comunque, la mia impertinenza filosofica (che non considero una virtù) mi porta a pensare che le pagine che Dorfles ha scritto sull’importanza della “pausa” (cfr. L’intervallo perduto, Skira, Milano 1989) sono un indicatore preciso della sua stessa filosofia di vita e di questo modo di essere un intellettuale così diverso dagli altri.

Pier Aldo Rovatti

 

 

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