di Pier Aldo Rovatti

 

È ragionevole pensare che, se non proprio la grande maggioranza, almeno una parte cospicua degli italiani condanni come incivili e dunque intollerabili le molestie alle donne, anche quando non diventano esplicite violenze.

Restano però gli altri, non così pochi, che alzano le spalle o girano la testa per non vedere, o che forse neppure si accorgono di ciò che vedono anche quando gli atti e le intenzioni moleste sono lì davanti ai loro occhi, e perfino quando essi stessi li stanno mettendo in opera.

Il tema è diventato decisamente caldo in questi giorni, dopo la raffica di denunce di attrici del cinema che hanno dichiarato di essere state molestate e stuprate da un notissimo produttore di Hollywood, quando erano giovani o giovanissime aspiranti alla carriera. Lui è finito in guai seri e di questo fatto decisamente eclatante si sta molto parlando: se si seguita a tornarci su è perché esso scoperchia con clamore una realtà che ha un’enorme diffusione, ben oltre gli ambienti dello spettacolo e un po’ dovunque in questo nostro mondo che pretende di essere civilizzato, nei luoghi di lavoro principalmente.

Ci ha colpito anche l’effetto valanga che non si è tuttora arrestato: quelle coraggiose denunce tardive – e si capisce bene cosa ha trattenuto dal farle – ne hanno prodotte molte altre, quasi che le voci femminili ora possano finalmente manifestarsi rivelando un immenso retroterra di violenze taciute, sopportate quotidianamente, ieri come oggi, che non possono venire dimenticate dalle donne che le hanno subite.

E gli uomini che alzano le spalle che cosa hanno da dire? Nulla al di fuori della solita canzonetta: più che sentirsi colpevoli, tendono a colpevolizzare le donne che avrebbero fatto della provocazione sessuale una tecnica di comportamento abituale e che dunque non possono recitare il ruolo di innocenti e passive vittime delle avances maschili. Anzi, che si industrierebbero nell’esercizio di una fascinazione non sempre fine a se stessa, bensì rivolta a ottenere vantaggi professionali. Sembra, così, assai difficile uscire completamente da un cerchio di connivenze. Quelli che alzano le spalle tendono a ridurre la scena a uno scenario di normalità in cui l’uomo e la donna giocano un’eterna partita come è sempre stato e continuerà a esserlo.

E noi, quelli che si ritengono civili, consapevoli e moderni, come rispondiamo? Ci basta, per essere tranquilli, additare la violenza maschile, i suoi modi subdoli e i suoi eccessi intollerabili? A me pare che, se ci limitassimo a questa pur necessaria denuncia, non andremmo al cuore della questione. Una questione che di solito chiamiamo “sesso”, ma che dovremmo soprattutto chiamare “potere”. Le modalità sessuali ne sono certo il motore, ma rischiamo di avvolgerci in un cerchio troppo stretto se ci fermiamo lì. Ne risulterebbe un contendere che si sfaccetta di continuo creando ombre e inutili contraddizioni. Meglio sarebbe andare diritti al punto e cioè intendersi bene sul fatto che la stessa sessualità non è mai qualcosa che si dà in piena autonomia, ma è sempre un dispositivo di potere e oggi, soprattutto, lo è in maniera evidente.

Come negare che l’attuale cultura conserva, anzi incrementa, il suo carattere maschilista? Quasi nessuno, tuttavia, afferma l’urgente bisogno di una consapevolezza che sia una critica radicale ai dispositivi di potere che attraversano le nostre vite fin dall’inizio e a ogni livello. Mi chiedo come sia possibile immaginarsi che le pratiche sessuali godano di un’immunità dai dispositivi di potere in una società che non conosce alcuna educazione critica nei confronti delle forme di dominio che incontriamo continuamente nella vita quotidiana.

Si apre qui un problema complicato poiché i rapporti di potere sono disseminati ovunque e noi allora dovremmo sviluppare uno sguardo in grado di distinguere il salto tra un comune rapporto di potere e gli incistamenti del potere nei rapporti di dominio. Invece, non soltanto li confondiamo ma spesso, molto spesso, promuoviamo discorsi e pratiche che indirizzano noi stessi e i nostri figli (e figlie) verso un elogio indiscriminato del successo personale e quindi di un potere da guadagnare come se si trattasse del bene più prezioso.

Con queste premesse, arriviamo anche a una specie di attenuazione della gravità delle molestie sessuali. Le condanniamo in nome di una libertà individuale che non esiste o, se esiste, non ha peso poiché ciò che ha importanza è appunto la quota di potere che possiamo acquisire.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 26 ottobre 2017]

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