di Pier Aldo Rovatti

 

Non sarà sfuggita ai lettori la notizia che hanno ripreso gli sbarchi dei migranti dalla Libia e che solo a Palermo, qualche giorno fa, sono arrivati tutti assieme duecento minori di cui più della metà senza qualcuno che li accompagnasse. L’Italia, come si sa bene e ogni volta si conferma con grande partecipazione (l’ultima voce autorevole è stata quella di Renzo Piano), è il Paese nel quale i bambini non solo sono sempre coccolati ma vengono elevati a simbolo di ogni virtù, barriera insuperabile contro cui si infrange qualunque cattiva intenzione e si scioglie ogni cinismo viscerale.

Perciò la notizia di questi recenti sbarchi è stata sì motivo per pensare che non fosse vero quello che avevamo creduto, e cioè che le nostre politiche di governo avessero avuto successo nel bloccare la rotta libica grazie a sapienti accordi e adeguate provvidenze, ma soprattutto ha fatto risaltare che le “esitazioni” (uso un eufemismo) sul cosiddetto ius soli hanno un tratto evidente di inciviltà e gridano vendetta al cielo.

Quelli di noi che non hanno la mente del tutto annebbiata da pregiudizi considerano né più né meno che assurdo il fatto che centinaia di migliaia di minori, che parlano la nostra lingua e frequentano le nostre scuole, che magari incontriamo ogni giorno per strada e sono compagni e amici dei nostri figli, debbano restare degli estranei, alieni in sostanza rispetto alla cultura che respirano insieme a noi, privati del diritto elementare di sentirsi quello che effettivamente già sono, e cioè “italiani”.

Uno ius soli per giunta annacquato e ridotto al minimo. Niente. Quel bambino così amato, forse troppo investito di valore, scompare in presenza di paure infondate ma soprattutto nel momento in cui, nei posizionamenti di fine legislatura, prevalgono convenienze politiche davvero inaccettabili. Nessuno sembra adesso credere più a chi ancora promette che la legge sarà varata. Dovrebbe verificarsi una specie di miracolo, un improvviso ravvedimento etico che mostri ai cittadini che la politica non si limita a un computo droghieresco degli interessi particolari e perfino personali. Ci vorrebbe un sussulto, uno scarto che ricordasse che il governo non è una qualunque bottega da gestire, bensì uno strumento per tentare di incrementare il livello di civiltà di tutti noi.

Quello che offende maggiormente è proprio lo sguardo corto. Un tempo si sarebbe lamentata una mancanza di ideali, oggi ci basterebbe la voglia di migliorare e di migliorarci, di cercare di uscire da un’asfissia culturale che toglie il respiro. Paure e pregiudizi possono diventare un campo di lotta aperta nel quale far prevalere le idee contro oscurantismi retrogradi. Ma la miopia dei microcalcoli della politica spicciola fa letteralmente cadere le braccia e attutisce perfino la voglia di combattere per le proprie idee.

Guardiamoli e ascoltiamoli con attenzione questi giovanissimi ai quali non vogliamo dare il diritto di essere come noi, e magari chiediamo ai nostri figli come li vivono quotidianamente. La prevedibile risposta sarà: “Perché dovremmo considerarli diversi, sono amici come gli altri”. Non c’è bisogno di mitizzare il bambino per rendersi conto che il problema sta tutto nelle nostre teste: siamo noi che scaviamo solchi e differenze, che nutriamo i nostri pregiudizi in modo automatico e anche inconsapevole.

Noi adulti vorremmo essere garantiti che non accadano inquinamenti culturali e che l’identità dei nostri figli venga preservata. Dunque, meglio che aspettino di avere diciotto anni, meglio ritardare il riconoscimento il più possibile. Insomma, non vorremmo riconoscerli mai. Siamo come accecati da un pregiudizio che ci impedisce di vedere che qui da noi, come altrove e dovunque, si verifica l’esatto opposto di un inquinamento culturale che metterebbe a rischio e impoverirebbe i nostri figli. Quello che accade e che sarebbe sotto gli occhi, se riuscissimo ad avere uno sguardo limpido, è un evidente arricchimento delle esperienze, un allargamento degli orizzonti.

È una constatazione talmente ovvia che sembra assurdo doverla ricordare. Sì, se non fosse che essa cessa di essere ovvia non appena prendiamo atto degli ostacoli dietro cui gli adulti coltivano la loro mentalità spesso costituita da restrizioni e difese nei confronti di ogni diversità. Ciò riguarda non tanto chi fa scuola quanto chi deve mandare a scuola i propri figli.

È nelle famiglie che si cementa, molto spesso, questa cultura chiusa in se stessa e poco disponibile all’ospitalità verso altri modi di comportarsi e di vivere la quotidianità, a partire dalle cose più minute e comuni. Dove starebbe allora il famoso modello al quale dovrebbero adeguarsi i figli dei migranti? Che cosa significa qui, di preciso, “integrazione”? Integrarsi a supposti valori oggi soffocati da una cultura reattiva e timorosa? Ed è poi ragionevole credere che l’integrazione riguardi soltanto “loro”, cioè gli altri, e non sia invece un processo in cui è in gioco anche una “nostra” trasformazione?

Il bambino che siamo indotti a santificare e per il quale ci commuoviamo potrebbe anche diventare un feticcio che ci ripara dalle responsabilità individuali e sociali, culturali e storiche, che dovremmo assumerci.

 

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 20 ottobre 2017]

 

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