di Pier Aldo Rovatti

 

Sono passati pochi giorni dallo scandalo dei concorsi universitari truccati esploso a Firenze. La procura è intervenuta con misure pesanti. Ricordo i dati: 59 docenti indagati, 7 agli arresti domiciliari, 22 già interdetti all’insegnamento. Sono accusati di avere manipolato i concorsi e di corruzione. Tutto è partito dalla coraggiosa denuncia di un ricercatore danneggiato da questo imponente giro truffaldino. E si sono subito levate voci preoccupate, espressioni di veemente indignazione dall’interno dell’università, l’esigenza di far qualcosa in fretta per tamponare il disastro. Perfino Raffaele Cantone ha preso la parola per stigmatizzare un inaudito “deficit etico” e addirittura proporre che in ciascun ateneo si disponga la presenza di un commissario anti-corruzione.

Ma poi, se chiedi in giro a chi insegna all’università, quasi nessuno si mostra sorpreso e tantomeno scandalizzato. Nessuna novità – senti dire – sappiamo che le cose stanno così praticamente da sempre e che i tentativi di riformare i concorsi non hanno cambiato una mentalità radicata e una prassi considerata normale: “Far vincere il proprio protetto”. E se ciò non è realizzabile in maniera diretta, dare il posto nel concorso in cui si è commissari all’allievo di un collega amico il quale restituirà il favore premiando a sua volta il candidato che si vuole portare in cattedra.

Un tempo si adoperava l’epiteto di “baroni”, oggi in disuso poiché quasi nessuno si differenzia dagli altri e la macchina funziona così, volenti o nolenti. Guai parlare di “mercato” o di simili volgarità che offenderebbero la dignità accademica. Semmai vengono tacciati di ingenuità e di idealismo coloro che si dichiarano poco disponibili ad accettare una tale logica: opponendosi, semplicemente si chiamano fuori e i loro allievi saranno destinati a rimanere al palo.

Notate che questa “logica”, larghissimamente generalizzata, ha poco o nulla a che fare con il merito individuale. Il merito resta un oggetto misterioso, magari viene riconosciuto a posteriori con tecniche di belletto per non dare troppo nell’occhio, ma non è mai il punto di partenza effettivo delle valutazioni. Puoi anche essere il ricercatore più meritevole di far strada nel tuo campo, magari hai già avuto significativi riconoscimenti dall’esterno (e qui si innesta tutta la questione della cosiddetta fuga dei cervelli), tuttavia se non disponi di “santi protettori” che – come si dice – ti “portano”, potresti restare per sempre lì ed essere perfino costretto a cambiare mestiere.

In questi ultimi anni l’università è stata invasa da tecniche di valutazione più o meno raffinate che producono classifiche complesse, applicate a ogni docente, ai dipartimenti e agli stessi studenti per cercare di determinare il peso di un ateneo (materializzato nei fondi a disposizione) e i profili individuali dei ricercatori. Ma, quando si arriva ai concorsi importanti, è lecito chiedersi come si traduca tutta questa fatica di calcoli e algoritmi che sottrae non poco tempo alla didattica. E, anche qui, nessuno degli addetti ignora che esistono modi più o meno eleganti per dribblare le risultanze di un meccanismo farraginoso che dunque riceve – non a caso – scarso credito.

Perché stupirsi che sia di comune dominio il fatto che per fare carriera è necessario agganciarsi alla cordata “giusta”, uniformarsi alle regole che essa stabilisce e assumere lo status di chi “obbedisce” senza discutere a richieste di ogni genere? E perché sorprendersi del fatto che la mancata adeguazione a tali regole di “buon” comportamento accademico coincida con l’azzeramento di ogni speranza di andare avanti? Appunto, quasi nessuno si stupisce e quasi nessuno è così masochista da decidere di non stare al gioco o almeno di non tentare di farlo.

Ora, dopo ciò che è successo a Firenze, ci affrettiamo a denunciare che i concorsi “combinati” rivelano un preoccupante deficit etico nell’istituzione accademica, ma al tempo stesso a tranquillizzarci convincendoci che nell’università esiste anche la parte sana e che dunque la malattia è circoscrivibile. Non so in che misura possiamo crederci davvero, visto che tutti quanti riconoscono una “mentalità” molto diffusa e molto difficile da correggere.

L’intervento della magistratura lancia adesso un segnale al quale non si può non prestare ascolto, tuttavia è lecito domandarsi quanto questa intimidazione avrà effetto sulla mentalità generale che pervade l’istituzione universitaria. Non tanto e non solo la logica dell’assegnazione delle cattedre, ma soprattutto la disposizione mentale, incistata da decenni e non senza buoni motivi, secondo la quale le cose stanno così e sono diventate ormai un habitus comune. Più che una mentalità cinica sembra puro e semplice realismo.

 

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 6 ottobre 2017]

 

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