di Pier Aldo Rovatti

 

Abbiamo ascoltato con emozione, in questi giorni, le note della “Marsigliese”. Ci sono servite per stare più vicini a uno sconforto che non tollera aggettivi, tanto è stato intenso e generale: quella notte di una settimana fa, Parigi non ha dormito e anche il giorno dopo le strade erano deserte, come se fossero morte pure loro.

Se per una volta facciamo attenzione – come è capitato a me – alle precise parole di questo inno universalmente celebre e celebrato, restiamo colpiti dalla loro durezza: basta il ritornello “Alle armi, cittadini / Formate i vostri battaglioni! / Andiamo! Andiamo! / Che un sangue impuro /Bagni i nostri campi!”. Non ricordavo simile aggressività e una voglia di vendetta così acre. Dopo la strage inaudita compiuta dai terroristi dell’Is al teatro Bataclan e nei dintorni, il presidente francese Hollande ha chiamato alle armi i concittadini, l’Europa e il mondo intero con toni guerreschi molto forti e decisi: che si “distruggano” gli assassini e il sedicente Stato che rappresentano, che si spazzi via la “barbarie” dell’integralismo musulmano, che si consumi subito una giusta vendetta. Anzi, più che un mònito o una chiamata, le sue prime parole erano una promessa, quasi un giuramento: la barbarie “sarà” distrutta e la Francia non si farà più “sorprendere” da alcunché.

Nei giorni seguenti la parola “guerra” ha preso uno spessore concreto con alleanze e consensi generalizzati: i bombardamenti su Raqqa e sulla Siria si sono appesantiti e si sta valutando la potenza e l’ampiezza dell’impatto senza escludere l’intervento di truppe di terra. Tutto l’Occidente è in fibrillazione poiché il rischio di una mondializzazione eventuale del conflitto non è così peregrino. Ci si chiede anche, però, se la guerra sia la risposta giusta e opportuna a quanto è accaduto a Parigi. Se essa sia l’antidoto più efficace all’evidente pericolo, se possa tacitare o solo calmare le paure dei francesi e degli altri, noi compresi. A chi obietta che comunque occorre cominciare a ribattere con la forza all’insulto della strage al Bataclan, si può ragionevolmente chiedere: sì, ma con quale catena di effetti collaterali e di controviolenze, e, soprattutto, come illudersi che un intervento militare duro arrivi davvero alle radici del problema e addirittura le estirpi?

Posso capire una retorica immediata che cerchi di dar sollievo al panico e all’angoscia promettendo che la barbarie sarà annientata e che nessun evento eccezionale prenderà più alle spalle i francesi (e anche noialtri), tuttavia – dissipando la retorica – è evidente che nessuna promessa di questo tipo può avere un fondamento: la barbarie non sarà distrutta e – quanto alla seconda promessa – farla all’indomani di un evento del tutto inatteso è alquanto bizzarro.

La nostra paura potrà cominciare ad acquietarsi solo quando disporremo di un’idea meno generica di questa barbarie. Qualche intellettuale ci ha provato (la nota psicanalista Elisabeth Roudinesco ha parlato di una società sempre più fragile e insicura in cui prevale “un senso di vuoto”, il grande vecchio Edgar Morin ha detto che il fanatismo religioso si combatte solo con una conoscenza puntuale e diffusa delle religioni) con argomenti ragionevoli e perfino ovvi, tuttavia spostando l’attenzione dall’annientamento dei “nemici” esterni ai problemi che affliggono la “nostra” società e la “nostra” condizione.

Ci si è interrogati troppo poco e rapidamente sul fatto che i terroristi abbiano scelto un quartiere “bobo” di Parigi, cioè di borghesia bohèmien, e si siano scagliati contro dei loro coetanei. Da qui dovrebbe partire un’analisi profonda dei disagi e dei conflitti sociali, di questa “caldaia che sta ormai scoppiando”, del perché alcuni si risolvono a imboccare scorciatoie devastanti e suicide, linee di fuga che sembrano “impazzite”, deliranti identificazioni religiose.

Le bombe sulla Siria non sarebbero più il primo e unico obiettivo e i problemi si incurverebbero sulla società francese (e, insomma, sulla nostra), cosa che evidentemente non si vuole soprattutto in presenza di conflitti politici interni non trascurabili. Il desiderio di vendetta (versando “sangue impuro”) e la richiesta che tutti accettino autolimitazioni della libertà a vantaggio della sicurezza individuale, hanno l’aria di palliativi della nostra paura, e non impediranno che la caldaia si avvicini ulteriormente al momento di uno scoppio sociale che potrebbe coinvolgere ciascuno di noi.

[uscito su “Il Piccolo”, 20 novembre 2015]

 

2 Responses to I toni guerreschi e le nostre paure

  1. Verona Emanuele says:

    Generali parole attutite o evidenziate ,il riscontro pero’ e’ di generale lettura di comprensione di evidente pensiero collettivo dove ormai le parole non hanno piu’ spunti se non il vero commosso e reversibile paura . Rimaniamo in attesa confermiamo il malessere ne denunciamo la presenza ne prendiamo atto e ne prendiamo difesa solo al nostro astratto comune giorno. Ma i tempi si vede sono maturi maturi per noi uomini dove ormai dobbiamo prendere coscienza di cio’che siamo e di cio’che dovremmo fare.

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