di Pier Aldo Rovatti

Tra pochi giorni, e precisamente il 31 marzo, giunge a scadenza il decreto di chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrico-giudiziari), quelli che un tempo chiamavamo manicomi criminali. Ne sono rimasti sei, sparsi per la penisola dalla Lombardia alla Sicilia. Un pressing culturale e politico, che dura ormai da anni, ha infatti prodotto una netta diminuzione di quanti erano rinchiusi in questi luoghi spesso descritti come infernali, peggiori di una normale prigione, e che pure avrebbero dovuto essere luoghi di cure psichiatriche. Oggi gli “ospiti” sono in tutto meno di mille, ma il problema non è risolto, perché se i vecchi se ne stanno uscendo, nuovi non cessano di arrivare. Insomma, la categoria dei “matti rei” è tutt’altro che estinta: alla chiusura degli Opg seguirà un processo di delocalizzazione in strutture o residenza protette (le cosiddette Rems, Residenze di massima sicurezza) che interesserà tutte le Regioni, compresa la nostra.

Una vergogna viene – per così dire – lavata, tuttavia nessuna delle questioni di fondo appare davvero risolta, dato che le volontà politiche e le resistenze professionali (leggi: psichiatri) restano differenziate anche al di là di ogni evidenza. Ricorderete la clamorosa denuncia messa in atto dal “viaggio di Marco Cavallo” (tradotto in un film documento presto di dominio pubblico), il famoso cavallo ideato dall’équipe di Basaglia e riscoperto da Peppe Dell’Acqua, che è partito il maggio scorso da piazza Unità, qui a Trieste, ed è arrivato fino in Sicilia, toccando tutti gli Opg ancora esistenti e facendo tappa anche a Roma con grande eco mediatica.

Se adesso ci si preoccupa giustamente di sapere cosa saranno e come funzioneranno queste “residenze”, che cosa potrà significare “massima sicurezza”, in cosa le Rems si distingueranno dalla vecchia logica manicomiale, come ciascuna di esse potrà combinare i processi di recupero terapeutico personalizzato con l’imperativo del “contenimento”, è comunque chiaro a tutti gli operatori dotati di un minimo di consapevolezza critica che la questione di fondo è quella della pericolosità sociale. Negli Opg finiscono coloro che la giustizia ritiene colpevoli di un reato e contestualmente dichiara (basandosi su una perizia psichiatrica) incapaci di intendere e di volere e socialmente pericolosi. Che il numero di questi reietti sia attualmente ridotto (grazie alle lotte intraprese) e che finalmente sia stato sanato l’obbrobrio degli “ergastoli bianchi” (detenzione sine die attraverso continue riconferme dello stato di pericolosità) non toglie che qui si concentri, e non solo simbolicamente, un vulnus di civiltà. In termini chiari e netti: la possibilità di deprivare qualcuno dei propri diritti fondamentali (e costituzionali), e cioè della propria soggettività. Se il termine “deprivazione” sembrasse troppo forte, diciamo – per stare più tranquilli – una parziale cancellazione di soggettività.

Chi si oppone a una riforma del codice penale (ormai vetusto) in fatto di pericolosità sociale? Risponderei così: una parte non piccola della psichiatria ufficiale, sorretta da un consenso a sua volta non piccolo di quell’opinione comune che agita di continuo la bandiera della paura e della salvaguardia della propria incolumità. Gli psichiatri si arroccano spesso nella torre della scientificità e nel loro compito di stilare e magari incrementare la lista dei disturbi mentali, classificandoli e differenziandoli. Si dice ormai che la psichiatria ufficiale abbia rimesso il camice, e qualcuno perfino li taccia di assomigliare ai vecchi “alienisti”. Accade così che la “rivoluzione” operata da Basaglia venga riconosciuta e omaggiata a parole, disattesa e anzi capovolta nei fatti.

Quanto all’opinione comune (quella parte di opinione spaventata che sta crescendo a vista d’occhio), essa è ormai indotta a scorgere il socialmente pericoloso un po’ dovunque e perfino in casa propria: naviga sempre più nell’incertezza e nel rischio quotidiano, non è certo incline a  una riforma che allenti la stretta della normativa penale, anzi spesso ne augura l’irrigidimento.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 27 marzo 2015]

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One Response to Lo stop ai manicomi criminali

  1. Jose' Mannu says:

    Sono convinto che la normativa sulla pericolosità sociale sia da eliminare. Ma il problema è l’ambiguità del ruolo dello psichiatra tra controllo e cura. La cura “sospende il giudizio” mentre il controllo nasce dalla formulazione di un giudizio. Di fronte all’incertezza di un’identità professionale lo psichiatra cede alla richiesta istituzionale e lo fa nel peggiore dei modi. Non basta quindi la legge, ci vuole anche una corretta definizione identitaria che il professionista da solo non è in grado di prendere

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