di Pier Aldo Rovatti

Siamo continuamente alla ricerca di parole che caratterizzino con rapidità e in estrema sintesi la nostra attuale condizione. Una di queste è certamente la parola “infantilismo”. Evocandola, sembra che ci capiamo al volo ma non è così.

Un esempio emerge nel dibattito (innescato dall’8 marzo) sui padri che si assumono una parte del cosiddetto lavoro di cura dei figli e della casa:  accade da tempo nel Nord Europa e, a quanto sembra, il fenomeno tende ora ad estendersi anche da noi per molti motivi, non ultimo la difficoltà dei trentenni nel trovare un’occupazione. Padri che condividono il ruolo delle madri (negli Stati Uniti vengono chiamati Hcd, ovvero “High Care Daddies”), con significativi acquisti in fatto di affettività e di perdita della rigidità tradizionale del maschio adulto.

C’è anche, a supporto, una letteratura specifica che studia questo fenomeno con titoli come “Il padre materno” o “Diventare grandi”. Tutto bene, si intende con le relative vischiosità culturali, tra cui proprio la scarsa capacità di “diventare grandi” in una società nella quale agisce un’evidente inerzia: le studiose e gli studiosi non nascondono, infatti, la resistenza – dati alla mano – ad allontanarsi dal piacere di restare o di ritornare infantili, come se appunto l’infantilismo dilagante fosse il principale nemico da stanare e da sconfiggere. Non me ne vorranno le femministe se osservo che ciò tocca egualmente la parte femminile della società, insomma padri e madri e tutti quanti, bambini inclusi.

L’esempio può essere esteso, scoprendo che non c’è oggi comparto sociale che non dia il suo attivo contributo a una simile minorizzazione collettiva, dal mondo dello spettacolo al mondo della politica, fino al mondo stesso della scuola. La parola “infantilizzazione”, tuttavia, è davvero così trasparente e lampante come sembra? E se fosse una trappola da cui liberarsi?

Viene veicolato, attraverso questa parola, un tratto indiscutibilmente negativo che corrisponde ad arretratezza, ingenuità, nonché – diciamolo – a una certa stupidità. Con infantilizzazione intendiamo infatti l’immagine negativa e rovesciata della condizione adulta, cui attribuiamo invece i caratteri dell’individuo progredito, scaltro, mentalmente maturo. L’immagine positiva dell’adulto è da sempre, e particolarmente nella società attuale, l’unico punto di riferimento e l’obiettivo che ciascuno dovrebbe raggiungere.

A essa è collegata l’istanza sociale ed economica del “crescere” e del “migliorarsi”. L’individuo adulto, supposto autonomo e maturo, coincide con la persona seria che ha smesso di giocare, che ha raggiunto un traguardo di vita ma è pur sempre in cammino verso il meglio. Quando cessa di essere considerato produttivo, questo individuo perde rapidamente valore e comincia a essere esposto a un processo di regressione. Pensiamo solo all’incidenza che l’aggettivo “serio” esercita nella gran parte dei discorsi privati e pubblici: “Quando diventerai una persona seria?” oppure “Questo è un problema politico serio!”. Vediamo subito balenare il suo contrario: “Smettiamo di fare i bambini!” oppure “Non trasformiamo il Parlamento in un asilo d’infanzia!”.

Se la condizione infantile diventa il semplice complemento negativo della pretesa serietà della condizione adulta, inevitabilmente spacciamo un’idea falsa e adulterata di bambino: un’idea che non nasce dall’infanzia stessa nella sua realtà concreta, ma solo da una proiezione dei cosiddetti “grandi”. Se l’idea di bambino viene quasi sempre falsificata, anche quella di adulto risulta astratta e solo supposta. Tutto viene rovesciato: l’adulto reale vorrebbe conservare in sé l’apertura e la spontaneità di quel bambino reale che in genere non conosce o addirittura non è mai stato, mentre – all’opposto – rimane incastrato nell’ideologia sociale della condizione adulta e nella proiezione negativa dell’infanzia che essa produce. È bloccato lì e molto spesso ne soffre. Quando cerca di sbloccarsi, ecco che subito il suo gesto viene marchiato con l’epiteto “infantilizzazione”.

Eppure, tutti noi abbiamo sulla punta della lingua tale parola marchiante come fosse ovvia. Pronunciandola in modo automatico, come di solito facciamo, penalizziamo sia la condizione infantile sia la condizione matura: il bambino viene annullato e l’adulto diventa la caricatura di se stesso.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 13 marzo 2015]

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