Che paradosso la verità del tribunale di Foucault
di Pier Aldo Rovatti
[uscito su “la Repubblica”, 12 gennaio 2014]
Il “laboratorio” di Michel Foucault è un pozzo senza fondo da cui sgorgano ogni volta materiali di enorme interesse. Tra non molto leggeremo in italiano (edito da Feltrinelli) l’attesissimo corso del 1980 sul Governo dei viventi, mentre in Francia è appena comparso quello sulla Società punitiva di qualche anno precedente. Intanto, arriva la traduzione (presso Einaudi) delle lezioni tenute a Lovanio tra il gennaio e il maggio 1981, su invito della Facoltà di Diritto e della Scuola di Criminologia della locale università (Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia, a cura di Fabienne Brion e Bernard E. Harcourt, traduzione di Valeria Zini, pp. 348, 25 euro).
Qui il problema della confessione, uno degli argomenti più densi dell’ultima fase del lavoro di Foucault (che, lo ricordo, è morto prematuramente nel 1984), è al centro di un quadro teorico e storico che riguarda l’incrocio tra la psichiatria e la giustizia, nella prima metà del secolo XIX, e che estende i suoi effetti fino alla nostra attualità, introducendo nel campo stesso del sistema penale una specie di “spina”, di “breccia” o di paradosso che ha a che fare precisamente con la questione della verità.
Non è facile dar conto in poche righe di questa macchina di pensiero critico, ma Foucault ci soccorre delineando una scena inaugurale e una scena finale in termini molto limpidi. Prima di descrivere queste due scene, occorre forse spiegare un po’ il titolo del corso (e del libro).
“Mal fare” indica soprattutto quell’agire che siamo abituati a chiamare criminoso. “Dir vero” allude certamente alla confessione da parte di chi ha commesso il crimine ed è anche la posta in gioco di tutto il discorso di Foucault, quello che lui definisce i modi di “veridizione”, intendendo che ce n’è più di uno e che nella sequenza storica essi si trasformano. L’accusato giura di fronte al tribunale di dire la verità, ma in cosa consiste questa verità? Noi pensiamo normalmente che essa stia nell’ammissione del suo crimine, tuttavia, a partire dall’inizio del Novecento, si tratta anche di altro, cioè – in breve – di dire la verità sul fatto stesso di essere un criminale. “Chi sei?”, vuole sapere il giudice, e non è detto che l’accusato sappia o voglia rispondere alla domanda. Ma questa risposta diventa sempre più necessaria perché il sistema penale possa funzionare.
La scena inaugurale apre la conferenza in cui Foucault annuncia i temi che tratterà durante il corso. Essa è presa da un manuale del 1840 sul trattamento morale della follia. Lo psichiatra francese François Leuret racconta di come ha risolto un caso di delirio di persecuzione: sospinge il malato sotto una doccia ghiacciata e lo costringe a subire questa tortura finché lui, che si ostina a dichiararsi sano di mente, non cede e ammette: “Tutto il mio delirio è soltanto follia”.
Ecco una confessione, una “verità” estorta con la violenza. Per quanto tempo gli apparati dell’Inquisizione hanno usato simili pratiche? Ma il commento di Foucault va oltre: oggi – dice – ci siamo lasciati alle spalle la tortura o l’abbiamo squalificata come mezzo o “prova” giuridicamente utile. Abbiamo girato pagina, tuttavia dall’episodio di Leuret possiamo ricavare molte indicazioni, una soprattutto: che il procedimento inquisitorio è sempre una questione di potere dell’accusatore sull’accusato, anche se la giustizia parla in nome del volere collettivo e l’accusato deve a sua volta inchinarsi, non solo riconoscere le sue malefatte ma anche considerare giusta la punizione che riceve.
Tra la prima e la seconda scena (quella che chiude l’intero corso) occorrerebbe ricordare il caso del pluriomicida Pierre Rivière che tanto aveva interessato Foucault qualche tempo prima e che aveva sollevato in Francia (più o meno negli anni di Leuret) un ampio dibattito tra psichiatri e magistrati. Rivière era folle? Non si riesce a stabilirlo. La cerniera è fornita dalla famosa “memoria” scritta, come se il giudice dicesse a questo enigmatico contadino all’apparenza analfabeta: poiché non comprendiamo, raccontaci la tua storia, dicci chi sei. Rivière scrive pagine affascinanti, in realtà non risponde e così facendo mette sotto scacco la giustizia stessa.
La seconda scena è la narrazione attuale dell’episodio di un noto avvocato francese che sta difendendo un uomo che ha rapito un bambino e lo ha freddamente ucciso. Un avvocato che si sta battendo contro la pena di morte e che paradossalmente utilizza il silenzio del proprio assistito di fronte all’incalzare della giuria. Non basta che confessi l’orribile crimine, deve “raddoppiare” questa confessione con un supplemento: dire la verità su cosa è un individuo criminale. Ma lui tace, e allora l’avvocato si rivolge così ai giudici e alla giuria: “Potete davvero condannare a morte qualcuno di cui non sapete nulla?”.
L’episodio segnala quella “diffrazione” che a Foucault interessa: il passaggio – per usare i suoi termini – dalla tradizionale ermeneutica del soggetto (il reo confesso) a una nuova “ermeneutica di sé” attraverso la quale la società vuole sapere dal soggetto stesso cosa è un criminale, per potersi così difendere dal “rischio” che esso comporta per tutti. Una nuova “problematizzazione” del dire la verità che, secondo Foucault, immette su una strada difficile e probabilmente senza uscita.
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