aut aut > Incrinature nella cultura della valutazione
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D’accordo in toto sui rischi di un concetto produttivistico di valutazione, mi chiedo d’altra parte come fare a meno di -e dunque, dall’altra parte, come concepire- una cultura della valutazione. Il campo della valutazione è oggi un vero e proprio settore disciplinare, e bisogna dire: per ciò che concerne, per esempio, la scuola superiore, esiste un corposo insieme di ricerche che mira alla creazione di criteri e standards qualitativi che surclassino ove possibile la quantità. Certo, forse i risultati, quando non scarsi, non sono certo eccelsi. A conti fatti sembra che il non poter prescindere dai numeri sia un ostacolo epistemologico: come, infatti, fare a meno dell’elencazione e della gerarchizzazione di titoli, pubblicazioni, riviste etc., quando si parla di valutazione intellettuale? Proprio da un punto di vista epistemologico, trovo che l’oggettività sia un problema già così spesso e vasto di per sé che pretendere di intrecciarlo semplicisticamente alla valutazione non possa che condurre a risultati pessimi o in alternativa, confusi. Ma tant’è. Detto questo, insomma, a partire da quale principio alternativo potrebbe essere possibile pensare una valutazione rispettosa dell’attività intellettuale e della sua libertà? Si parla di punti di partenza, non certo di approdi. Ma penso che il primo passo sia l’abolizione della nozione di “meritocrazia” come criterio gerarchizzante che pretende di farsi valore -prevedendo peraltro quel genere di selettività che è l’occasione d’intreccio di sapere e potere- a favore di un criterio, valore e principio che reputo sommo e semplice, che è: la trasparenza. Se c’è un punto su cui non transigere, su cui essere irremovibili, e da cui partire per una riflessione onesta sulla valutazione esterna, è proprio la trasparenza, ovvero la sola finestra su cui la libertà (una libertà sincera, che non gareggia, che non desidera il passaggio da steps predeterminati) possa affacciarsi con fierezza.
Marta Clemente, Palermo.