di Damiano Cantone
 

Questo testo è stato scritto sulla scia dei recenti eventi politici che hanno interessato in vario modo le forme della politica a livello planetario. Dico in vario modo perché certamente il fenomeno che va sotto il nome di “primavera araba” non può, se non per pochi aspetti, essere accumunato alle proteste che hanno interessato il mondo occidentale, il cui filone più significativo è stato sicuramente il movimento statunitense Occupy Wall Street, e delle quali anche in Italia abbiamo conosciuto delle declinazioni, dai No Tav alla protesta dei tassisti al blocco autostradale degli autotrasportatori. Se il testo, che pretenderebbe di avere il tono del pamphlet, è dunque in larga parte frutto dell’attualità, le sue coordinate sono state invece tracciate nel corso di una riflessione sulla dinamica politica Italiana ed europea che è strettamente legata al lavoro redazionale svolto in occasione della pubblicazione del numero di “aut aut” che conteneva una sezione dedicata alla questione dei nuovi fascismi. Nell’articolo scritto a quatto mani con Massimiliano Roveretto, cercavamo di tracciare una veloce mappa dei cambiamenti in atto non solo nella “cosa” politica, ma nell’antropologia dei soggetti che si pensa dovrebbero essere coloro che la agiscono. Questioni come quelle della rappresentanza, dell’obsolescenza della forma-partito, del ruolo pubblico dell’uso privato della tecnologia, della mancanza di rivendicazioni globali efficaci non ci sembravano, e ovviamente non ci sembrano tuttora, risolvibili all’interno del vecchio, rassicurante recinto della democrazia occidentale così come l’abbiamo conosciuta finora. Pericoli e possibilità ci stanno di fronte, e non dobbiamo essere ciechi ai primi se vogliamo sfruttare le seconde.
 

Il mondo è in fermento. È attraversato da scosse nervose che hanno preso il via dal medio oriente e si sono propagate a macchia d’olio fino in zone considerate ormai immuni alle proteste popolari, come l’ Europa o gli Stati Uniti. Sebbene tuttavia tutte queste proteste siano il sintomo di una insoddisfazione globale, dobbiamo fare attenzione a non diagnosticare troppo velocemente la stessa malattia. Anche se i giovani della cosiddetta “primavera araba” sono altrettanto scontenti delle forme di potere che li governano dei loro coetanei “indignados” madrileni e di quelli che occupano Wall Street, non va dimenticato che c’è una profonda differenza tra i primi, che anelano a una forma di governo democratico, e i secondi che invece criticano la mancanza di vera democrazia all’interno delle democrazie occidentali. Se le vere e proprie rivolte della Tunisia, della Libia, dell’Egitto e della Siria avevano e hanno come scopo quello di rovesciare dei tiranni e di instaurare delle nuove forme politiche più eque, le proteste europee e statunitensi sembrano più un grido disperato e impotente verso un limite intrinseco dei regimi democratici che reggono i nostri Paesi. Essersi affidati con troppa leggerezza al capitalismo finanziario, non più fondato sulla logica del lavoro e del prodotto, ma sul debito e la speculazione, dopo l’ebbrezza iniziale, ora si sta rivelando per molti un pesante errore. Il problema, come testimoniano casi tipo quello della Grecia, è che è molto difficile cambiare rotta, e le popolazioni soffrono perché sono costrette a pagare il prezzo di decisioni che sono state prese al di sopra delle loro teste, e rispetto alle quali non si sentono responsabili. Perciò, a differenza degli arabi, gli europei non si aspettano che da queste proteste esca una forma politica migliore, né possiedono delle reali proposte di respiro globale capaci di cambiare lo stato delle cose.

Proprio per questo ultimamente, dopo più di trent’anni di oblio generalizzato, da più parti si comincia a pensare che le analisi economiche di tipo marxista siano state liquidate con eccessiva leggerezza. Si tratta dell’atteggiamento ingenuo di quanti si sentono traditi dal libero mercato e dalle sue lusinghe e si rivolgono al grande pensatore del passato supplicando da lui una soluzione, una parola illuminante sul presente. Quegli stessi che ne avevano allegramente scritto il necrologio, pensando che l’accoppiata di capitalismo economico e sistemi democratici avrebbe addirittura portato alla “fine delle storia”, ora rileggono pezzi del Capitale e del Manifesto in preda al panico, sperando di riuscire a capire così dov’è che le cose hanno cominciato ad andar male. In verità, di tutte le profezie fatte da Marx sul destino del capitalismo, una si è sicuramente avverata. È tra le più note: come una sorta di apprendista stregone, sostiene Marx nel Manifesto, la borghesia evoca delle forze degli inferi che non è in grado di controllare. Forze dalle quali è stata distrutta irrimediabilmente. La sua forma tradizionale, nata dalla rivoluzione industriale, si è dissolta, sia quella alta, formata dai capitalisti veri e propri, famiglie di industriali e imprenditori proprietari delle fabbriche e delle aziende in genere, sia la cosiddetta “piccola borghesia”, formata da medici, avvocati, artigiani e professionisti.

I disordini ai quali abbiamo assistito in occidente in quest’ultimo anno stanno a testimoniarlo in modo lampante: non si tratta certo di lotte rivoluzionarie, e nemmeno di grandi rivendicazioni sindacali, ma della protesta di ex borghesi che si vedono impoveriti: taxisti che temono la concorrenza, avvocati e farmacisti che vogliono conservare i loro privilegi, professionisti di vario tipo che si aggrappano alle loro rendite di posizione, investitori che vedono andare in fumo i loro risparmi, studenti universitari che hanno capito che il loro futuro, nonostante tutte le retoriche, sarà peggiore di quello dei loro padri. Questo quadro è certamente inquietante, e possiede una cornice surreale. Le proteste infatti generalmente vengono rivolte verso un soggetto sociale ben identificabile, ma in questo caso chi è il nemico? Contro chi si rivolgono le proteste? Alcuni infatti si scagliano contro le misure di austerità imposte dalle politiche internazionali, alcuni contro i giochi di speculazione finanziaria, altri contro l’evasione fiscale dei “furbetti”, altri contro la tirannia delle banche. Il fatto è che le vecchie categorie della politica o della sociologia non descrivono più la realtà: ormai le aziende offrono sempre più “servizi” e sempre meno “prodotti”, sono gestite da “manager” e non da “padroni”. Il capitale è sempre più anonimo, in senso letterale, non appartiene a nessuno di identificabile: la vecchia figura dell’imprenditore che rischia i propri soldi per costruire e dirigere la sua azienda è messa in discussione e sta declinando. In pratica, come osserva Žižek in una serie di recenti articoli, il borghese è diventato un salariato, e la differenza col proletario è solo ormai quantitativa (prende un salario più alto), ma non qualitativa.

Sembrano tuttavia tutti concordi nel rilevare che la crisi economica che stiamo affrontando sia una crisi del sistema di produzione tardo capitalista. Nulla di più falso: il capitalismo, a livello globale non ha mai goduto di salute migliore. Anche soggetti che per situazioni storiche, sociali e politiche erano rimasti ai margini della competizione capitalista hanno i requisiti per giocare con le carte in regola: non serve parlare solo e sempre di Cina e India, possiamo guardare ad esempio anche alla vertiginosa crescita di alcuni paesi dell’America latina. E forse non è nemmeno più il caso di usare espressioni come appunto quella di “paese emergente”. La vecchia equazione secondo la quale l’aumento di capitali privati inevitabilmente favorisce la crescita del Pil del paese e dunque ha delle ricadute positive anche per i cittadini di quello Stato, sembra scricchiolare pesantemente. Gli Stati, con buona pace di Hegel, non sono più i protagonisti della Storia, sostituiti in questo ruolo dai mercati, che sono davvero in grado di trasformare le nostre esistenze più delle decisioni politiche ridotte a semplice amministrazione dell’inevitabile.

Lyotard, in un saggio del 1973 dal quale ho rubato il titolo di questa postfazione, già ci offriva un’immagine perfetta per descrivere i mercati: essi sono come gli dei di Epicuro, del tutto indifferenti ai nostri bisogni e alle nostre preghiere e non si occupano delle nostre miserie. La loro esistenza è puramente autoreferenziale, eppure dobbiamo guardare a loro se vogliamo realizzare la nostra felicità terrena. Rispetto a loro, siamo come tanti atomi separati che si aggregano in modo contingente per poi separarsi di nuovo e venir infinitamente trascinati in quel vortice di relazioni fluide che chiamiamo capitalismo.

Lottare contro l’attuale configurazione del capitalismo è dunque sia insensato sia ingiusto. Insensato, poiché stiamo assistendo proprio alla dimostrazione della palese incapacità della politica di agire efficacemente sull’economia. Fin che l’economia va bene, possiamo anche illuderci che la politica conti qualcosa, che sia capace di proporre soluzioni davvero efficaci per i problemi della popolazione di uno Stato, ma non appena il Pil comincia pericolosamente a scendere o il debito ad aumentare, e quindi si affaccia la prospettiva di un default, ecco che i governi vengono commissariati, organismi di controllo internazionale intervengono a dettare la linea politica del paese, e le decisioni prese per salvare (ovviamente solo economicamente) il paese stesso vengono prese in modo ben poco democratico o comunque sovranazionale. I riti della democrazia (elezioni, leggi, istituzioni) sembrano ormai solo una gentile concessione dei mercati, un premio per una gestione virtuosa dell’economia.

Ingiusto perché è inutile protestare se qualcuno ci batte a un gioco per il quale noi abbiamo stabilito le regole, vantaggio del quale abbiamo goduto per decenni per mantenere il nostro attuale standard di vita. La rottura di tutte le barriere commerciali, la deregulation del mercato del lavoro, la delocalizzazione della produzione, lo sfruttamento indiscriminato di risorse naturali, l’ampliamento costante dei mercati sono state le carte con le quali per anni l’occidente si è garantito un primato economico rispetto al resto del mondo. Troppo facile parlare di etica del capitalismo o affrettarsi a reintrodurre dazi e misure protezionistiche rispetto al capitale finanziario quando questo ha deciso di voltarci le spalle e favorire paesi con economie più aggressive delle nostre.

Risulta evidente come, anziché il capitalismo, siano in crisi – e profonda – le istituzioni di quelle che generalmente indichiamo con il nome di “democrazie occidentali”. Esse da una parte non sono in grado di determinare l’andamento dei flussi dell’economia globale, dall’altra hanno perso ogni tipo di legame con i cittadini che dovrebbero rappresentare. La azioni politiche delle moderne democrazie si sono trasformate nella gestione di una crisi continua, nel disperato tentativo di amministrare l’imprevedibile, di far fronte a situazioni del debito pubblico e del costo dei servizi sempre più intollerabili. La forma partito, che pure tanta importanza ha avuto nelle vicende della politica del secolo scorso, ha esaurito la sua funzione storica. I partiti si sono trasformati in organismi autoreferenziali che tentano in tutti i modi di resistere alle istanze di trasformazione che vengono poste loro da problemi che trascendono la dimensione nazionale e da un’insoddisfazione diffusa presso i cittadini. Probabilmente è proprio questo il punto: l’immobile politica dei partiti non si è ancora resa conto della radicale mutazione antropologica alla quale sono andati incontro i cittadini sotto la spinta del “linguaggio delle cose”, processo acutamente analizzato da Pasolini già molti anni fa, e che è stato reso molto più radicale dall’affermarsi delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione. I partiti annaspano nel tentativo di intercettare un elettorato sempre più incomprensibile e umorale, riducendosi spesso a populismo e a demagogia.

Riforma è una delle parole che più si sono svuotate di ogni significato negli ultimi anni. Per rassicurare i propri elettori, non c’è politico che non si definisca “riformista”, nella surrettizia fiducia che per uscire dalla crisi basti qualche piccolo accorgimento, una serie di tagli dolorosi ma necessari e una leggera ridistribuzione del peso fiscale. Continuando a recitare il mantra delle riforme non esorcizzeremo i rischi che ci si prospettano. La sfida è molto più radicale: dobbiamo ripensare le forme politiche che ci dovranno governare in futuro, senza pregiudiziali o risposte già confezionate, pena condannare la politica alla totale irrilevanza. Il rischio sempre più concreto è la trasformazione dei governi in un consiglio di amministrazione controllato da qualche istituzione economico-finanziaria internazionale. Un’indicazione sulla direzione da prendere ci viene proprio, di nuovo, dalla filosofia di Epicuro. Egli infatti si proponeva, attraverso la filosofia, di liberare gli uomini dalla paura degli dei. Solo liberandosi dalle sue paure l’uomo può essere felice. Mutatis mutandis, dobbiamo smetterla di farci impaurire dai mercati. I nostri governanti non possono continuare a reagire in modo così isterico alle pressioni dell’economia globale, e dovrebbero avere il coraggio di porsi ancora una volta la domanda fondamentale della politica: qual è la forma migliore di governo per gli uomini, quella che maggiormente consente loro di essere felici? Felicità è una parola meno retorica di quanto si creda, e sarebbe tanto sciocco farla coincidere con il benessere economico quanto criminale escluderla cinicamente a priori da una concreta riflessione politica. Sarebbe altrettanto sciocco e criminale tuttavia avere la pretesa di poter decidere a priori in che cosa dovrebbe consistere la felicità per tutti. Se siamo degli atomi, staccati gli uni dagli altri, è altrettanto vero che esiste una possibilità di deviazione che garantisce a ciascuno il diritto all’autodeterminazione nel proprio percorso.

Fuor di metafora, seguendo questa analisi, l’orizzonte della politica prossima ventura dovrebbe prevedere una maggior possibilità di partecipazione dei soggetti a decisioni che riguardano le loro vite. È stato Foucault ha introdurre la categoria di “biopolitica” per descrivere i modi nei quali le moderne forme del potere si rapportano al soggetto umano e alle sue scelte individuali. Le istituzioni organizzano i modi e gli spazi nei quali deve svolgersi la vita degli individui e non solo: sono i poteri istituzionali (Stato, chiesa, medicina, diritto, economia) a definire qual è una forma di vita è auspicabile per ciascuno, e a definire quali siano le soglie tra giusto e sbagliato, salute e malattia, vita e morte. In tal modo, il soggetto non è un libero agente, ma è sempre assoggettato a un potere che parla e sceglie al posto suo, del tutto privo quindi della libertà di autodeterminarsi. Questa situazione non è più tollerabile, come dimostrano per l’appunto le proteste che percorrono il nostro mondo da un capo all’altro: la sfida sarà quella di pensare nuove forme e nuovi modi di partecipazione degli individui al dibattito democratico, per trasformare questo malcontento in una forza positiva di cambiamento ed evitare che diventino solo sterili e violenti moti di rabbia.

In questo senso, assistiamo al progressivo indebolimento del concetto di rappresentanza politica. Questi fenomeni sono popolari e non-preordinati: qualche volta i partiti, i sindacati o altri tentano di cavalcarli per un cinico calcolo di marketing, ma non riescono mai né a organizzarli né a prevederli. Più volte è stato sottolineato, a questo proposito, l’importante ruolo svolto in queste manifestazione dai cosiddetti new media: social forum, blog e altro. La tecnologia in molti casi ha permesso ai partecipanti – vedi i giovani di piazza Tahrir a in Egitto – di organizzarsi e di far sentire la propria voce eludendo le forme di censura e controllo del regime, semplicemente utilizzando dei mezzi di comunicazione ancora relativamente ignoti alle istituzioni. Non possiamo certo aspettarci tuttavia la soluzione di tutti i nostri problemi dai progressi della tecnologia: saremmo piuttosto ingenui a pensare alla tecnica come a uno strumento di emancipazione nelle nostre mani. In realtà, come ha notato Benjamin già nel secolo scorso, la tecnica si è svincolata dal controllo dell’uomo, ha cessato di essere al suo servizio, e anzi è una delle forme di potere più forti tra quelle che progressivamente modellano le nostre esistenze e la nostra percezione della realtà. Eppure i fatti in questione ci dimostrano che è possibile ancora un uso politico della tecnica, ovvero un suo utilizzo soggettivo e non preordinato. Se ne sfruttiamo il potenziale, la tecnica può ancora aiutarci a ricavare degli spazi di libertà e partecipazione (magari attraverso forme di gestione più diretta del potere) tanto necessari quanto problematici. Infatti le istituzioni politiche non potranno più agire in base a deleghe in bianco rilasciate attraverso un rito pseudo-democratico che si svolge ogni tot anni, e che si risolve ultimamente in una mera operazione di marketing. La politica, paradossalmente, per fare un passo avanti dovrà fare un passo indietro, e restituire ai cittadini il diritto/dovere di prendere in mano le loro vite, in quanto da sempre soggetti politici.

Questo significa anche permettere alle persone di partecipare, semplicemente in quanto singoli cittadini, a decisioni che riguardano il loro futuro, come la gestione delle risorse energetiche, il piano delle comunicazioni, l’informazione, responsabilizzando ciascuno nei confronti di tutti. Non si tratta di chiudersi in sterili localismi, ma di integrare le esigenze locali in un quadro globale che dovrà essere l’effetto, e non la causa delle decisioni singole. Si tratta, in definitiva, di ripensare la felicità come la condizione trascendentale dell’azione politica: non stabilire qual è la migliore azione politica possibile per essere felici, ma definire e difendere i criteri affinché un’azione politica felice sia possibile.

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One Response to Capitalismo energumeno

  1. Paola capaccioli says:

    Ottimo saggio, chiaro semplice incisivo

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