di Silvana Borutti

Non discuterò in questa nota le due figure limite, che a tratti sfiorano la caricatura, che Maurizio Ferraris propone nel suo libro (Manifesto del nuovo realismo), entrambe negative perché dogmatiche: l’odioso post-modernista negazionista da una parte, e dall’altra il realista sempliciotto che aderisce, per dirla con Francis Ponge, al partito preso delle cose.
Va presa invece molto sul serio l’istanza illuminista, critica e emancipatrice (contro i dogmi e contro le ideologie) del realismo: questo è il cuore teoretico del libro, il suo messaggio. Il libro dice che non si dà conoscenza critica senza porre il problema della radice ontologica della conoscenza. (Io sono abituata a chiamare questa questione con una parola neokantiana: la questione dell’oggettivazione, che tuttavia a Ferraris non piace, perché ha un sapore costruttivo.) Ma non voglio parlare della mia prospettiva; voglio invece chiedere altri argomenti a Ferraris per valutare se essere convinta della sua prospettiva. Proprio per credere al valore illuminista, critico ed emancipativo del nuovo realismo, istanze che hanno valore etico, il valore che a mio parere dobbiamo assegnare alla conoscenza, credo che alcuni punti vadano esplicitati. Propongo perciò una serie di domande.

1. Una prima domanda è superficiale, ma importante nella nostra società. Perché è necessario un manifesto? Un manifesto occupa spazi della comunicazione sociale. Non temono, i sostenitori del nuovo realismo, la distorsione del progetto nel circo mediatico? Non temono la riduzione della realtà a sedie e tavoli? Non temono l’effetto Mallory? Tutti lo conoscono, ma lo cito ancora una volta perché è efficace. George Mallory muore nel 1924 tentando di arrivare in cima all’Everest. Prima di partire per l’impresa, intervistato, al giornalista che gli chiede perché vuole scalare l’Everest, risponde: Perché c’è. Non rischia di diventare questa una perfetta risposta realista, che esaurisce tutta la portata della concezione realista della verità? La realtà nel suo aspetto più massiccio come base dei progetti e dell’esistenza. Più realista di così si muore. E infatti Mallory ne muore.

2. La seconda domanda entra nel merito in modo più approfondito: riguarda la distinzione fatti e interpretazioni. Mi è chiaro cosa Ferraris intenda per interpretazione: grosso modo, la dissoluzione dell’ontologia e del reale nel linguaggio che lo dice, o nello schema concettuale (Ferraris dice correttamente: ci rapportiamo al mondo attraverso schemi concettuali, ma il mondo non è determinato dagli schemi: p. 46). Ma non mi è chiaro cosa si intenda per fatti. A volte mi sembra di capire che se ne dia una versione fiscalista neopositivista, i cosiddetti protocolli alla Neurath: cioè delle proposizioni-base su oggetti fisici, che descrivono una esperienza esprimibile come “L’individuo X, nel luogo Y e al tempo t, osserva che…”: ma questi sono appunto protocolli, proposizioni che registrano eventi in uno spazio tempo, dunque sono trascrizioni in uno spazio linguistico-simbolico, hanno cioè una realtà già tradotta (sono di questo tipo anche i fatti del Tractatus di Wittgenstein, che scrive: “Lo stato di cose [Sachverhalt] è un nesso d’oggetti” (T, 2.01); “I fatti [Tatsachen] nello spazio logico sono il mondo”: il che vuol dire che i fatti sono nessi, cioè configurazioni di oggetti in proposizioni).
Ma c’è anche una versione più, diciamo, primitiva, materialista, che mi sembra Ferraris preferisca: i fatti come lo strato di roccia (la montagna di Mallory). Ferraris scrive, a p. 50, che ne parla Wittgenstein nel § 217 delle Ricerche filosofiche: ma se leggiamo tutto il paragrafo, Wittgenstein dice altro, non parla cioè dell’Everest:

“In che modo posso seguire una regola?” […] Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la vanga si piega. Allora sono disposto a dire: “Ecco, agisco proprio così”.

Per Wittgenstein lo strato di roccia non è l’Everest, ma il gioco linguistico: dunque una struttura di interpretazione del mondo, un “come”: Agisco così, seguo questa regola che ho appreso, questo è il mio schema di azione.
Dunque, mi rimane la domanda: cosa sono per te i fatti in senso realistico? Qual è il senso realistico dei fatti?

3. Il terzo argomento su cui sarebbe importante uno sviluppo è il più rilevante. La questione centrale del nuovo approccio realista è non ridurre l’ontologia all’epistemologia, cioè, kantianamente, al sapere sugli oggetti.
A questo proposito, Ferraris fa l’eccezione degli oggetti sociali. Assumo e non discuto la sua teoria degli oggetti sociali come atti inscritti, che implicano cioè la documentalità, che mi sembra effettivamente più convincente di quella di Searle.
[Apro una parentesi: Ho detto che non voglio discutere la sua teoria della documentalità, che trovo convincente, ma non resisto alla tentazione di notare in questa teoria degli oggetti sociali un tradimento del maestro Derrida: Ferraris si ispiri infatti al suo concetto di scrittura come pratica di inscrizione e di traccia, ma tradisce profondamente il concetto derridiano di scrittura quando assume la traccia esclusivamente nel suo valore documentale, e quindi di presenza, mentre dimentica l’altro aspetto del farmaco-scrittura, il fatto che traccia (e quindi oggetto) implica un’alterità, una resistenza (come ha fatto notare Giovanni Scibilia). Mi pare cioè che Ferraris pensi solo la socialità della traccia, e dimentichi proprio la naturalità-alterità-inemendabilità della traccia, il fatto che non ne siamo semplici autori, che ne siamo prodotti, come se – e questo di fatto Ferraris lo dice, dicendo che la documentalità produce intenzionalità e non viceversa – il sociale fosse prima di noi che stipuliamo. Paradossalmente, qui le posizioni si rovesciano: per Ferraris gli oggetti sociali sono solo costruiti (non naturali), per me qualche naturalità-resistenza-negatività-inemendabilità c’è anche in essi.]
Ma la vera domanda che vorrei a Ferraris fare è: come istituisci la differenza tra oggetto sociale e oggetto naturale? È una distinzione ontologica che non ha proprio niente di epistemologico? Non rischiamo di ricadere nella distinzione tra convenzione-stipulazione da una parte, e naturalità intesa come vera esistenza, oggetto-di-contro dall’altra? Ma se è così, non mi è chiaro che tipo di realismo sia quello che si appella alla realtà come oggetto di contro a noi umani.
In altre parole, se guardiamo agli oggetti naturali, non capisco cosa sono: tavoli, sedie, ciabatte sono oggetti naturali? Ma questi non ci sono se noi non li facciamo; Ferraris intende forse come Platone che c’è una continuità tra physis e techne? (nell’analogia della linea del L. VI della Resp., 510a, Platone li classificava come oggetti prodotti, fabbricati e li metteva insieme a uomini e animali: nel secondo segmento della linea ci sono “gli animali intorno a noi e tutte le piante e l’intero genere degli oggetti fabbricati”, e istituiva così una continuità tra physis e techne).
Tuttavia forse mi sbaglio a fare questo ragionamento, a pensare cioè che i letti e i tavoli non sono naturali perché li facciamo noi, perché poi leggo che il criterio di Ferraris dell’oggetto naturale è che ci sia anche se non li guardiamo, cioè che sia in sé e che sia sostanzialmente il mondo là fuori (gli aristotelici onta kath’auto exo tes dianoias): un elenco ontologico del libro dice: montagne, laghi, castori, asteroidi. Se il castoro è un oggetto naturale, anche l’uomo, in quanto animale, dovrebbe esserlo, invece sembra di no, anzi, sembra che sia un po’ natura (il Körper di Husserl?), cioè un po’ mondo esterno, e un po’ mente, mondo interno.
Questo dualismo esterno/interno, a parte che mi inquieta, non mi è chiaro. Da una parte mi sembra che si faccia una lettura a base neuroscientifica dell’interno-mente come struttura neurale; ma poi gli studi di Ferraris su telefonino, i-pad, cioè sulla mente come tavola scrittoria (dentro e fuori la mente) mi fanno pensare a qualcosa di più complesso.
Chiedo allora molto semplicemente: Cosa siamo noi rispetto alla realtà là fuori? Non pensa Ferraris che il mondo non sia là all’esterno, non sia davanti a me e fuori di me come uno spettacolo, ma, come scriveva Merleau-Ponty, sia piuttosto la stoffa di cui sono fatto, che mentre mi circonda nello stesso tempo mi attraversa? Non pensa che facciamo parte anche noi della vita anonima (e fungente) del mondo, se non altro nella passività della percezione, a cui egli giustamente dà un ruolo importante in ciò che chiama (felicemente) “inemendabilità del mondo”?

4. Ultima questione: Come si può dire che gli oggetti naturali sono solo ricostruiti (pp. 79 sgg.)? E che gli scienziati prendono atto di qualcosa che esiste? La fisica delle particelle come una presa d’atto mi sembra un po’ un azzardo. L’ontologia quantistica, ad esempio, non si regge senza epistemologia, a mio parere: è un’epistemologia che è costretta a sospendere l’analisi cosistica del mondo su cui si basa il realismo modesto di cui parli, e a parlare attraverso modelli. Riporto in modo approssimativo la mia conversazione con un fisico che si occupa di biologia. Mi ha spiegato perché in fisica non possiamo mantenere un linguaggio di cose a livello ontologico, che in altre parole che la fisica quantistica non ha niente a che fare con un’ontologia di cose, ma è un’ontologia di modelli, di schemi teorici. L’organismo biologico si evolve secondo le leggi della fisica e della chimica molecolare: la vita è fatta di reazioni chimiche, ma è incomprensibile se pensiamo le reazioni chimiche classicamente, come incontri tra molecole localizzate e isolate. Ci deve essere correlazione tra reazioni chimiche in un punto e in un altro, altrimenti non si manterrebbe l’unità dell’organismo. Come si propagano allora i segnali? Non c’è energia sufficiente per il trasporto se pensiamo alle molecole come oggetti inerti. La fisica quantistica li pensa come fluttuanti, oscillanti, in relazione ritmica, che seguono fasi di oscillazioni risonanti nel campo – una specie di danza magica. Qui non c’è ontologia senza epistemologia
Io non credo che la filosofia faccia un buon servizio al pensiero e alla verità se si ostina a mantenersi a livello delle cose del senso comune.

One Response to Dove va la filosofia?

  1. Marco Maccio' says:

    L’Autrice chiede cosa si intende per fatti. Ci si può trovare d’accordo più facilmente nominando fatti singoli. A me non risulta che Mallory abbia detto così, cioè because it there is, bensì abbia detto because it is there (perchè è là, intendendo forse (era l’interpretazione di mio padre quando 50 anni fa me ne parlò) che la esistenza irraggiungibile della cima dell’Everest rappresentava per lui una sfida). Ecco, io sto invitando Silvana Borutti all’accertamento di un fatto. Se è comunque assai difficile accertare ciò che veramente ha detto Mallory, se lo ha detto ecc., c’è tuttavia un fatto di minor rilevanza, e questo per fortuna è facilmente accertabile: c’è qualcuno che molti anni fa ha attribuito a Mallory una certa risposta; vediamo di accertare se essa era there is o is there. Potremo avere la sorpresa che la risposta attribuitagli era ancora altra, più vicina alla prima nostra o alla seconda oppure di tutt’altro genere, perchè la domanda era un’altra. Insomma questo è un processo di accertamento dei fatti. Importantissimo poichè è preliminare alle interrpretazione, la quale viene comunque dopo (cosa intendeva dire Mallory? ecc.), poichè prima bisogna conoscere il fatto da intepretare Mi piacerebbe sapere da Silvana Borutti se è d’accordo che ciò di cui ho parlato or ora è un processo di accertamento di un fatto. Che cosa ne consegue? Che per avanzare nella conoscenza c’è un primo elementare e semplice criterio (non sufficiente ma necessario): distinguere tra fatti da rilevare e accertare e interpretazioni (spiegazioni, comprensioni, ipotesi, teorie). Altrimenti chi veramente si fa guidare dall’opposto criterio di Nietzsche non può far altro che costruire spiegazioni di fatti superficialmente studiati e mal accertati e quindi produrre vacua retorica, finendo inevitabilmente preda del principio di autorità (mi riferisco allo stile assai diffuso di scrivere saggi in cui non si dice: io penso così per questi e questi motivi, ma: questo Autore più o meno famoso ha detto questo e io la penso come lui). Non oso allungare troppo il mio commento, per quanto ci sarebbero molte altre cose da dire. Ringrazio dell’attenzione e invio cordiali saluti. Marco Maccio’

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