di Antonio Gnoli
“la Repubblica”, 22 dicembre 2011

È una delle riviste più belle in circolazione. A dire il vero lo è da sessant’anni. Cioè da quando Enzo Paci la fondò nel 1951. Sobria, internazionale, al passo con l’evoluzione dei tempi, aut aut è l’espressione di una filosofia militante attenta alle questioni del soggetto (vedremo in che senso) e dei rapporti con l’altro. Un’antologia di suoi scritti, curata da Pier Aldo Rovatti che ne è il direttore dal 1976, è uscita ora con il titolo Il coraggio della filosofia (il Saggiatore, pp. 533, euro 25).

Rovatti, perché fu scelto aut aut come titolo?
«La testata alludeva a una famosa opera di Kierkegaard, ma il suo significato indicava l’esigenza culturale di una netta presa di posizione. Siamo di fronte a un bivio – diceva Enzo Paci nel primo editoriale – o la strada della barbarie o quella della civiltà. Barbarie per lui era il pensiero dogmatico e tutte le idee di tipo assolutistico del passato e del presente. Formulò un no deciso alle forme di violenza che si riproducono attraverso i pregiudizi. Era il 1951. Sebbene la guerra e il fascismo fossero alle spalle, la cultura continuava ad essere un deserto. Un giovane professore universitario, che aveva coniugato Platone con l’esistenzialismo, e di lì a poco avrebbe scoperto la fenomenologia, ideò e fece nascere aut aut».

Lei è stato allievo di Paci. Che persona è stata?
«Paci ha scritto degli ottimi libri. Era un uomo formidabile per cultura, spirito critico e originalità di idee. Le sue lezioni alla Statale di Milano erano per tutti un’esperienza di vita. Aveva un grande fascino. Io lo subii al punto che lasciai il corso di lettere e mi iscrissi a filosofia. Ricordo che un sabato del 1961 feci con Salvatore Veca un’esercitazione in aula su “Fenomenologia e teatro”. Il testo piacque a Paci che ci chiese se volevamo pubblicarlo sulla rivista».

Non ha l’impressione che, al di là dei meriti, della scuola fenomenologica – del tentativo di Paci di coniugare Marx con Husserl – resti ben poco?
«Marx con Husserl significava rivitalizzare il materialismo storico, salvando il marxismo critico dalla barbarie. La domanda sul soggetto che Paci allora sollevava è rimasta aperta in tutto il percorso successivo di aut aut fino a oggi».

Dopo gli anni della fenomenologia giunse il Sessantotto e aut aut è stato un buon termometro del dibattito allora in corso. Non ritiene però che il ruolo della rivista poteva essere più critico verso il movimento?
«La rivista aveva contribuito a preparare il ’68 ma non si identificò mai con il movimento degli studenti, anzi ne criticò i dogmatismi suggerendo un orizzonte filosofico molto più ampio».

Due figure di quel “decennio rosso” furono Raniero Panzieri e Franco Fortini. Il confronto con loro vi ha svincolato dal condizionamento del Pci. Ma restava il rischio di essere riassorbiti in un’idea di “soggettività rivoluzionaria” che si è mostrata velleitaria e impraticabile.
«Il decennio al quale allude è stato forse il momento più dinamico della rivista: la questione dei bisogni ne rappresentò il filo rosso, il collettore e insieme la provocazione filosofica. Le idee di alcuni allievi di Lukács (Agnes Heller in primo luogo) e le loro critiche al “socialismo realizzato” costituirono un elemento importante di questo filo. Non a caso attorno alla rivista si aggregarono intellettuali di spicco, talora assai dissimili, da Cacciari a Fortini. Eravamo una palestra di posizioni anche conflittuali. E non mi pare che in quegli anni caldi la rivista abbia mai rinunciato alla sua ispirazione critica».

Gli anni Ottanta hanno significato un rapporto privilegiato con Foucault. Lo stesso che, negli anni Novanta, si mostrerà con Derrida. Non c’ è stato un eccesso di francesizzazione della rivista?
«Troppa Francia? Non so. Tra l’altro c’è da aggiungere l’interesse per Lacan che continua tuttora. Prima sembrava tutto girare attorno alla fenomenologia, che parlava tedesco, la stessa lingua di Heidegger, al quale abbiamo dedicato successivamente moltissima attenzione. Ma non credo che la geofilosofia sia un sintomo significativo. Foucault entra nelle pagine di aut aut alla fine degli anni Settanta quando il problema centrale diventa per noi quello del poteree della natura dei dispositivi in cui viviamo».

Insieme a Vattimo lei è stato fautore in Italia di un “pensiero debole”. Ritiene che questo modo di interpretare il mondo sia ancora valido? O non crede che quell’esperienza si sia consumata dopo il nuovo richiamo alla realtà e ai fatti che la determinano?
«Qui vorrei essere molto netto: il pensiero debole era inattuale nel 1983, quando uscì allo scoperto, e resta inattuale oggi, quando si vorrebbe celebrarne il funerale. Il pensiero debole non è morto semplicemente perché non si è mai permesso che vivesse davvero. Quanto ad aut aut, l’indebolimento delle pretese assolutistiche della filosofia e la critica agli usi “violenti” della verità si intonavano perfettamente con i motivi per cui la rivista era nata, cioè la denuncia di ogni barbarie del pensiero, insomma di tutte le ideologie. E si accordava altrettanto bene con la microfisica del potere e la critica al “soggetto filosofico” che attraversano l’intero pensiero di Foucault».

I temi dell’alterità e dell’ospitalità sono le coordinate dell’ ultima fase della rivista. Non c’è il rischio di un eccessivo buonismo filosofico?
«Non direi proprio che aut aut possa essere accusata di buonismo filosofico. Al contrario, è una rivista che tende a produrre fastidi e lanciare provocazioni. Alterità ha per noi significato apertura ad altri mondi culturali, ma soprattutto bisogno di stanare e descrivere le insidiose e diffuse retoriche dell’alterità che vengono spacciate per supplementi d’anima. Quanto all’ospitalità non ha niente di dolce, non è un cibo per anime belle. Come l’abbiamo intesa noi, sulla scorta di Derrida, vuol dire essere stranieri, appunto ospiti in casa propria».

Chi vi critica sostiene che la rivista sia eccessivamente filosofica. Troppo elitaria.
«È un’obiezione che condivido e che implica anche un aspetto di scrittura. Le molte proposte spontanee che arrivano in redazione sono spesso scritte in filosofese, che la dice lunga sull’idea astratta di filosofia che circola e su come l’università formi studiosi magari bravi ma spesso incapaci di comunicare».

Siamo usciti, forse, da un regime politico ma non da una crisi che ha tratti epocali. Come si posiziona aut aut di fronte alle nuove incertezze, paure e precarietà che stiamo vivendo?
«Credo che l’Italia sia ancora immersa nella cultura-spettacolo e nei suoi tratti, diciamo pure, populistici. Sottovalutare questo aspetto della barbarie sarebbe un errore. Quanto alla precarietà sociale sarebbe sbagliato attribuire alla filosofia, concreta o no che sia, il compito di prefigurare soluzioni teoriche ed etiche. Non è affar suo. La filosofia non deve venir meno al suo ruolo di descrizione e di critica. Il suo compito è individuare linee di resistenza continuando nel contempo lo smascheramento delle retoriche vecchie e nuove, visibili o striscianti. Chiamerei tutto ciò lavoro di “etica minima”».

Cosa significa?
«Un lavoro tutt’ altro che di superficie, visto che mette in gioco la domanda più cruciale: che ne è oggi, nella società neoliberale realizzata, della soggettività? Assistiamo a una sorta di falsa pienezza del soggetto che illusoriamente pensa di essere un individuo libero, autonomo e padrone di sé. Quando in realtà tutto va nella direzione opposta. Il soggetto egoistico non è più una storia narrabile. Meglio ripartire dalla sua finitezza e precarietà».

 

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