[dalla premessa] Le azioni di Freud sono in ribasso. Non ho statistiche attendibili in proposito. La mia affermazione si basa su un solo dato di fatto, a suo modo singolare. Dispongo di un sito web, dotato di una certa visibilità: in media tremila visite al mese, con punte di seimila; in media mille e cinquecento pagine lette al mese, con punte di tremila. Nel sito ho predisposto una decina di pagine che parlano (criticamente) di Freud e una sola che parla (molto criticamente) di Jung. Inoltre, i link interni al sito sono polarizzati decisamente su Freud. Ciononostante, con mia relativa sorpresa, da qualche mese tra le top ten delle pagine più gettonate non compare più Freud ma compare Jung. Junghismo contro freudismo dieci a uno. Lacan, che ha pure molte pagine e molti link (e moltissime critiche) a lui dedicati, galleggia per lo più a metà classifica. Le cause di questo esito singolare possono essere molte. Quella che mi viene più spontaneo e immediato immaginare, non necessariamente la più probabile, è la maggiore apparente scientificità di Freud.
Alla gente non piace vedere immischiata la scienza, oggettiva e impersonale, nelle proprie faccende soggettive e personali. La gente preferisce pensare in termini mitologici di narrazioni universali, che sente più affini alle proprie storie. Freud è carente di miti: offre un solo e misero mito, l’Edipo, contro la ragguardevole ricchezza di miti esibita da Jung. Freud gode di minori consensi di Jung, perché apparentemente concede meno alla platea, allora? Freud meno “populista” di Jung?
Non è questa la sede per discutere dei destini della psicanalisi. Rimando a un prossimo numero di “aut aut” su Freud e Jung, più volte ventilato in redazione, ma mai messo in cantiere. Qui mi limito a paragonare il dato singolare sopra riferito a un altro ugualmente singolare. Lo faccio anche per giustificare il titolo dato al numero: “Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio”, decantandolo da risvolti potenzialmente polemici. Esisterebbero freudiani poco giudiziosi?
Le azioni di Elvio Fachinelli, invece, non sono mai scese. Ero uno psicanalista alle prime armi nel “tumultuoso decennio ’68-78” e leggevo con curiosità i suoi elzeviri sulla terza pagina del “Corriere”. Cosa mi attirava di questo “intellettuale lacaniano, che sposò psicanalisi e politica”, come racconta la storica della psicanalisi italiana, Silvia Vegetti Finzi? Certamente la sua capacità di analizzare le vicende del soggetto collettivo non meno di quelle del soggetto individuale, senza però confonderli e senza applicare al primo i cliché validi per il secondo. Paradigmatiche e tuttora attuali, nella Freccia ferma, le pagine sul fascismo italiano, inteso come modalità ricorrente di arresto della freccia del tempo dai tempi di Zenone alla moderna psicastenia.
Dopo la sua morte (1989) i congressi in memoria si rincorrono. Non ne ha avuti altrettanti Cesare Musatti, che pure fu suo analista e famoso perché definiva la psicanalisi come la propria sorella gemella. Ne ricordo alcuni tra i più importanti: Salerno, 20-22 ottobre 2005, La mente e l’estasi, organizzato da Rosario Conforti; Trento, 27-28 marzo 2009, Nel secolo della psicoanalisi. Elvio Fachinelli e la domanda della sfinge, organizzato da Nestore Pirillo; Firenze, 18 settembre 2010, Estasi laiche. Intorno a Elvio Fachinelli, organizzato da Adalinda Gasparini.
“Intramontabile Fachinelli”, scrive Paulo Barone, precisando subito che ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria. Insomma, Fachinelli un mito? Perché no? Noi moderni siamo affamati di miti, come aveva ben capito Jung. In fondo i miti moderni sono molto pochi, solo due. Sono il Faust e il Don Giovanni, entrambi miti epistemici, come è giusto che sia in epoca scientifica: uno, quello di Faust, il mito del falso sapere (mefistofelico? scientifico?); l’altro, quello del Burlador de Sevilla, il mito del saperci fare con le donne (?) non più angelicate; in fondo, sapeva solo contarle una dopo l’altra, precisa Lacan.
A proposito di sapere, cosa sapeva Fachinelli? Tentano di rispondere i contributi raccolti in questo numero di “aut aut”, che si apre con una serie di suoi testi cosiddetti “minori”. Si comincia, simbolicamente, con uno scritto di Pier Aldo Rovatti, coevo a Claustrofilia. In quegli anni, dalle colonne di “Alfabeta” Rovatti dialogava con Fachinelli sulla nozione allora nuova e problematica di co-identità. Rovatti è poi intervenuto anche al citato convegno di Trento sulla mente estatica come pratica di pensiero. La nozione foucaultiana di “pratica” sarebbe piaciuta a Fachinelli, che era un teorico sì, ma poco amante delle teorizzazioni astratte e generalizzanti.
Lo scritto maggiore per estensione è quello di Lea Melandri, costruito secondo il paradigma del viaggio mitologico dell’eroe, alla Otto Rank o, in tempi più vicini a noi, alla Joseph Campbell. Il percorso intellettuale di Fachinelli diventa, allora, Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano. Offre l’amorevole ripresa dei rischi che l’intellettuale affrontò nel suo attraversamento delle aporie della modernità, prima di tutte quelle insite nella dialettica individuale/collettivo, dove il collettivo è visto anche dal punto di vista del movimento delle donne.
All’estremo opposto, lo scritto minore, ma solo per numero di battute, e non meno denso di spunti di riflessione, è quello di Paulo Barone, che commenta il testo di Fachinelli su Cultura e necrofagia nell’industria culturale, del 1978, qui riportato nei Materiali. Ogni sapere è destinato a superarsi, afferma Jung, citato da Barone alla fine del suo pezzo. Ma c’è modo e modo di dileguare, tanto per dirla alla Hegel. Il modo della cultura necrofagica è quello sterile della cadaverizzazione, che non consiste nel far sparire i prodotti culturali, gli oggetti, ma nel mummificarli in un tempo pseudoeterno senza presente e senza conseguenze di pensiero.
Seguono quattro interventi presentati al citato congresso di Firenze. Sono tutti incentrati sull’ultimo libro di Fachinelli, La mente estatica, del 1989. Sergio Benvenuto rilegge il capitolo finale di Analisi finita e infinita di Freud alla luce del “significante nuovo” proposto da Fachinellli: accoglienza, in antitesi alla nozione freudiana di difesa. Invita a pensare il rifiuto della femminilità, il gewachsener Fels freudiano, come resistenza ad accogliere il nuovo. Dobbiamo pensare una nuova ospitalità del e al pensiero. È qui forse il caso di ricordare che intorno alla questione dell’ospitalità si era cimentato l’ultimo Derrida, un filosofo particolarmente vicino alla psicanalisi. Cristiana Cimino propone alcuni modi di coniugare nella pratica clinica l’“estasi laica” fachinelliana con il significante freudiano dell’Unheimliche. Adalinda Gasparini sviluppa il tema del pensiero solitario e inattuale di Fachinelli. Esiste un pensiero solitario? Forse è ontologicamente impossibile. Perciò va tentato e magari reso attuale. Luca Migliorini, matematico a Bologna, analizza i rapporti tra creazione matematica e creazione poetica: Proust contro Grothendieck, un bel match. Infine, su suggerimento di Rovatti, il sottoscritto parla di come leggeva Lacan l’allievo che Lacan non ebbe mai.
Una sintesi? Perché no, sapendo naturalmente quanto possa essere fallace. Ne propongo una esclusivamente mia, unicamente a giustificazione del titolo del numero della rivista, da me proposto e deciso in redazione con generale consenso ma, comprensibilmente, senza molto entusiasmo. Fachinelli seppe essere un freudiano di giudizio. Accolse il freudismo, lo rielaborò e lo estese dalla dimensione di pratica terapeutica individuale, cui l’avevano ridotto i freudiani ortodossi, alla dimensione di pratica politica collettiva, pur senza indulgere alla moda di allora: il freudomarxismo, via impraticabile, tentata ai tempi e per breve tempo da Wilhelm Reich. Fachinelli fu un freudiano di giudizio nel senso che applicò a Freud un giudizio critico “freudiano”. Accettò e approfondì la nozione freudiana di negazione che non nega (già in Hegel) e di meccanismo di ripetizione (già in Nietzsche), ma respinse il “delirio” dei meccanismi di difesa, espressione della mentalità bellicistica del fondatore della psicanalisi.
È questo per me un insegnamento che resta. Altrettanto “giudiziosi” dovremmo essere anche noi, quando ci diciamo freudiani. Altrettanto e forse di più dovremmo esserlo nei confronti di Lacan, quando ci presentiamo come lacaniani. Suvvia, abbiamo il coraggio di essere freudiani senza freudismi, lacaniani senza lacanismi. Non fu Fachinelli, “intellettuale lacaniano”, a darcene l’esempio? (Di un autore di tale spessore etico i miei nipoti attendono ancora le Opere complete.) [A.S.]

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