di Andrea Muni

Una lotta dentro la filosofia. […] Tale scontro andrebbe preso a mio parere molto sul serio, se si vuole ampliare lo sguardo sulle pratiche e avere uno sguardo microfisico sulla situazione […] . Sembra banale osservare che se si parla di filosofia occorre innanzitutto intendersi bene sul ruolo e lo statuto della filosofia stessa e del cosiddetto filosofo. […] Il “filosofo” non è mai del tutto esterno a un dispositivo disciplinare, inteso come disciplinarità storica della filosofia in quanto sapere e come apparato istituzionale,in cui si produce la sua pratica di pensiero. Senza una chiarificazione critica di questo suo stare nel medesimo tempo dentro e fuori dalla disciplina, corriamo il rischio di fare del filosofo una figura mitizzata e magari, proprio per questo, assai vicina alle logiche del padrone.

Pier Aldo Rovatti, da Foucault docet in “The Italian difference”

 

La Fase Uno della riflessione “culturale” sull’emergenza che tutti stiamo vivendo sta per concludersi. Presto giungerà il momento, grave, di prendere posizioni nette, pratiche e personali, di carattere etico-politico. Posizioni che sveleranno se e fino a che punto molti pensatori sono davvero all’altezza delle proprie parole.

Sta scadendo il tempo per interpretare le cause, per attardarsi in pur raffinate analisi sulle ricadute esistenziali (positive e negative) di una reclusione che ormai – si spera – sta volgendo al termine. Incombe ora piuttosto su ognuno di noi l’obbligo – l’urgenza della cultura e della filosofia “impegnate” – di costruire tempisticamente nuove strategie di lotta e di comunicazione da giocarsi nei mesi e negli anni a venire.

Se i redattori di “aut aut” e il direttore Pier Aldo Rovatti quarant’anni fa, all’inizio del 1980, ebbero nel momento più buio degli anni di piombo il coraggio di prendere una posizione netta contro la “violenza teorica” del terrorismo (nonostante il conclamato impegno della rivista nelle lotte teoriche – e non – di quegli anni), credo che oggi a rovescio il coraggio della filosofia – che non a caso è il sottotitolo dell’antologia di “aut aut” da cui traggo questo spunto “storico” – esiga un’altra epocale scelta di campo: una presa di posizione di segno insieme uguale e inverso.

Credo che il coraggio della filosofia ci chiami oggi a una esplicita presa di distanza da tutta la “filosofia” che non condivide intimamente, concretamente, il desiderio di mettersi al servizio delle lotte sociali che si preannunciano e che sarà fondamentale, per una volta, non lasciar volare (come la famosa Nottola) verso un crepuscolo neofascista – per poi lamentarsi, ancora, di quanto la gente sia cattiva e stupida perché non ascolta la cultura, gli intellettuali, la filosofia o il papa.

Incombe una presa di distanza coraggiosa dalla invisibile violenza (teorica e politica) che il mondo della cultura e della filosofia “ufficiale” autorizza e fomenta – dall’alto del suo potere mediatico – annacquando e squalificando, scientemente o meno, da “destra” e da “sinistra”, ogni discorso che lotta in pura perdita per aggregare un grande movimento d’opinione dove possano trovare casa tutti gli sfruttati.

***

Il cosiddetto mondo della cultura e della filosofia “di sinistra” – soprattutto quello “alto”, deliri di Žižek a parte – non ha dato finora il minimo segnale di avvertire l’urgenza di un simile impegno; l’urgenza di prendere una posizione radicale e politica; l’esigenza di schierarsi da subito, a una voce, con la massa di persone che entreranno a breve – di colpo e tutte insieme – sotto la soglia della povertà. Certo, qualcuno potrebbe dire che ciò non accade per una giusta prudenza, o per un pudore rispetto all’idea di fare i Robespierre dal divano di casa.

Temo che in realtà il motivo, ben più spiacevole a dirsi, sia da ricercare nel fatto che per la maggior parte le persone di cultura e i filosofi “importanti” non hanno mai fatto nient’altro, nessun altro lavoro o mestiere nella vita. Nel fatto che, piaccia o meno, essi fanno parte di un altro mondo. Un mondo profondamente separato da quello che si vede minacciato e che sarà, per l’ennesima volta, massacrato dall’imminente crisi economica. Gli intellettuali “di peso” (e i loro emuli) non possono vivere concretamente nella loro esistenza l’angoscia, la paura, il caos calmo, che già stanno vivendo (e presto vivranno) milioni di italiani, milioni di persone. La contraddizione è evidente, perché è proprio a loro, a “noi” – perché ne esistono tante di persone di cultura (con famiglia o meno) che vivono con ottocento/mille euro al mese e in case sovraffollate – che la filosofia dovrebbe dedicare in questo momento ogni suo sforzo “di pensiero”, di ricerca, di invenzione di pratiche, di riflessione sulle strategie.

In questo momento la cultura e la filosofia “ufficiali”, quelle che affollano i giornali e i blog più importanti e seguiti, stanno svolgendo – consapevolmente o meno, poco importa – un’operazione soporifera, narcotica. Stanno svolgendo, per l’ennesima volta, il raffinato e sottile ruolo repressivo  che gli compete nel regime di verità neoliberale. Stanno affollando l’etere di discorsi politicamente vuoti, intasando uno spazio mediatico che in questo momento dovrebbe piuttosto lasciare spazio e voce al desiderio delle persone di rompere le catene, materiali e psicologiche, dello sfruttamento neoliberale.

Non ci credete a questo desiderio? Pensate che sia una immaginaria proiezione di qualche invasato rivoluzionario, di qualche sognante lettore di Marx dell’ultima ora? Non credete che questo sia un desiderio reale e diffuso della gente? Provate a parlarci un po’ con la gente, con quella che ha già poco o niente da perdere. Resterete sorpresi.

Provate a parlare con le cassiere che hanno dovuto continuare a lavorare per tutta la crisi; con le infermiere che hanno dovuto lavorare senza mascherine fino all’altro ieri; con i corrieri assunti con i contratti a progetto che sono stati lasciati a casa, senza tutele, e che non saranno riassunti; con gli stagionali che, se va bene, quest’anno perderanno due o tre mesi di stipendio (e uno o due disoccupazione); con gli autotrasportatori a cui è stato detto: “Sì c’è una pandemia ma voi lavorate lo stesso”. Oppure pensate al fatto che viviamo in un mondo in cui andare a lavorare è “permesso” prima di fare una passeggiata. Mi fermo.

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Non più di un anno fa ho sentito con le mie orecchie, in una conversazione privata, un importante intellettuale “di sinistra” dire che gli italiani nella loro recente torsione sovranista si sono dimostrati per l’ennesima volta dei viziati lamentosi. Perché noi italiani siamo così: gente che si lamenta, a cui non va mai bene niente. Questa è l’idea di fondo, malconfessata, che la maggior parte degli intellettuali di sinistra più importanti e di maggior peso mediatico ha delle classi popolari italiane. Un’idea che purtroppo si diffonde facilmente, a macchia d’olio. Perché non c’è bisogno di essere famosi per far parte di questo triste club, è sufficiente scimmiottare nelle pose e nei discorsi i più popolari “eroi” dello snobismo pseudoprogressista.

Tutto questo deve finire. Finitela, finiamola, ora. Perché se la cultura e la “filosofia” non si daranno una svegliata e non si metteranno subito al servizio di un popolo arrabbiato e impoverito, non potranno tra qualche anno lamentarsi di nuovo se questo popolo, scivolando sempre più vertiginosamente nella povertà e nell’ignoranza, guarderà con sempre maggiore convinzione verso le estreme destre, il razzismo e i sovranismi più esasperati.

È arrivato il tempo di rompere la bolla di sogno che separa la cultura, la filosofia, il “pensiero”, dal reale della politica, della società, delle persone comuni. L’abbrutimento umano patito dagli italiani negli ultimi trent’anni pare non essere mai stato un problema, una “responsabilità”, della cultura italiana. Questo sfacelo umano e culturale è stato sempre solo trattato e interpretato come un oggetto di “studio” – o al limite come spunto per aberranti arringhe dalle colonne dei quotidiani. Ma mai – ma e poi mai – come una questione che metteva in discussione un’intera classe dirigente e intellettuale.

Siamo annegati negli ultimi anni in fiumi di inchiostro profusi a sfottere complottisti e complottismi, senza nemmeno cominciare a sospettarne la sintomaticità. Ci hanno spiegato con cura fino a che punto Fusaro – che è l’unico filosofo in vista che parla esplicitamente di Marx – sia un clerico-fascista e non sia una persona di sinistra (verissimo!), salvo poi ospitarlo allegramente nelle collane di Feltrinelli a scrivere su Gramsci.

Il fatto che l’università italiana abbia ormai praticamente il solo scopo di somministrare lobotomie neoliberali a giovani infarciti di ideologia autoimprenditoriale fin dalle scuole medie… pare non essere un problema dell’università e del sistema scolastico italiani. Tutto si svolge in un’aura surreale di mutua indifferenza, come se tra la maggior parte delle persone comuni e il mondo della cultura non ci fosse ormai più alcun rimando: solo un sguardo freddo e beffardo che la gente lascia languidamente cadere con sufficienza sulla cultura. Uno sguardo che la cultura, fieramente, ricambia.

La spaccatura tra cultura “alta” e cultura popolare non è mai stata così profonda, e rispecchia purtroppo quella ancora più inquietante tra le condizioni di vita delle persone di cultura “importanti” e quelle dei tanti poveri cristi – spesso muniti di lauree, dottorati e pedigree di ogni sorta – che sono i nuovi proletari del mondo di oggi e di domani.

Queste persone sono l’unica chance, l’ultima occasione per ricostruire un vero dialogo tra la gente e il mondo della cultura. Sono queste persone “infami” – sempre che siano uscite dalla sindrome di Stoccolma che li induce a scimmiottare maldestramente i loro “idoli filosofici – che più devono essere ascoltate e valorizzate oggi dalla cultura e dalla filosofia. Un nuovo operaismo – nutrito e custodito dalle tante persone di cultura che negli ultimi vent’anni hanno vissuto sulla propria pelle la vertiginosa proletarizzazione delle classi medie italiane – è la sola speranza che ancora abbiamo per propiziare un nuovo incontro “impossibile” tra cultura e classi popolari, tra politica e filosofia.

Un incontro magico e “impossibile”, come quello che si è prodotto in Italia tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, anche se in quei tempi il percorso era per certi versi uguale e inverso. In quel periodo, infatti, molte persone nate proletarie e povere, grazie al boom economico, arrivarono in massa a occupare posizioni di rilievo nella cultura e nelle arti dando loro un impulso inatteso e meraviglioso.

***

Davvero, amici “di cultura”, amici filosofi, importanti o meno che siate – che siamo. Pensateci. Prima di svegliarvi, di svegliarci, un giorno, scoprendo che abbiamo passato la vita sulla barricata che credevamo di fronteggiare. Pensiamoci per tempo, prima di sorprendere l’ombra dei nostri volti balenare vertiginosamente dall’altra parte della barricata, nel campo del nemico.

È necessario che la filosofia e la cultura si mettano in gioco. È necessario che mettano al servizio delle lotte la loro speciale capacità di flirtare con l’“impossibile”.

Se il disco rotto della cultura e della filosofia “ufficiali” di pseudosinistra fosse qualcosa di diverso da un continuo assist semiconsapevole al regime di verità neoliberale, le importanti persone che appartengono a questo discorso avrebbero già fatto emergere le questioni fondamentali, questioni su cui dovremmo lavorare da subito, tutti insieme.

  1. Come far crescere e socializzare l’idea “impossibile” di un’azione collettiva, non-violenta e popolare contro lo sfruttamento capitalista e neoliberale?
  2. Come creare un discorso, delle strategie di lotta, che veicolino questo rifiuto, quest’azione – che siano il più inclusivi possibile e che, nel contempo, offrano alla persone finalmente uno spazio di incontro umano al di là della logica dell’utile?
  3. Come costruire – con buona pace di Toni Negri, che crede di esserci già riuscito – un discorso in cui davvero tutti gli sfruttati possano riconoscersi a vicenda e ridere finalmente delle proprie catene?

Non meno di qui. Quello che ho imparato del pensiero debole è che si tratta di un’etica, di un modo preciso di stare al mondo niente affatto “ritirato” o vigliacco – come è sempre piaciuto dire a molti dei suoi detrattori. Quello che ho imparato dal pensiero debole è piuttosto il desiderio di aprire una breccia nella prosopopea e nella violenza dei ragionamenti “filosofici” e “politici” sui massimi sistemi, soprattutto se a fare questi ragionamenti sono persone col culo al caldo che non hanno mai vissuto sulla propria pelle gli aspetti più feroci della “schiavitù” cui questo sistema economico costringe la maggior parte delle persone nel nostro paese e sul pianeta.

Il pensiero debole mi ha insegnato a mettere ogni questione politica e ogni verità teorica alla prova della mia quotidianità e della mia vita reale. Il pensiero debole è la necessità di esporsi in prima persona, di mettersi in gioco, di mettere alla prova – alla prova degli altri e di sé stessi – ciò che si fa e ciò che si dice. Farlo fino alla vertigine, alla messa in dubbio radicale di sé stessi e di tutte le proprie certezze – se necessario. Perché, senza questa angoscia, senza questo rischio soggettivo, reale, non c’è alcuna dignità nell’essere filosofi.

Forse per le persone di una certa età questo momento non è poi così epocale dal punto di vista politico. Per molti “anziani” pensatori si tratta probabilmente solo dell’ennesimo inizio di una delle tante “crisi” già patite e attraversate. Ma per le persone della mia generazione – io sono diventato adulto lavoratore e genitore durante la crisi del 2008 – quella che si preannuncia non è una semplice nuova “crisi”, è qualcosa di più. Molto di più. È un punto di non ritorno.

È la goccia che fa traboccare il vaso. La goccia che ti chiama ad agire, a non poter tollerare più il fatto che la cultura e la filosofia nella nostra società siano diventate pratiche tristi, autonome, hobbistiche e lobbistiche. Pratiche fintamente indipendenti, foglie di fico marce, che servono soltanto a coprire quello che succede ora, nel fuori, a tutti noi. In quel fuori che ha un nome preciso: lo sfruttamento capitalista.

Quelli che da questo “fuori” sono minacciati solo parzialmente, quelli che non se ne sono ancora accorti, e anche quelli che – nella cultura e nella filosofia – addirittura da questo sfruttamento traggono beneficio, saranno presto chiamati dagli eventi a una scelta di campo. Dovranno scegliere se sputare fieramente e masochisticamente nel piatto dove mangiano ed entrare nel gioco, o ammettere a sé stessi che stanno dall’altra parte della barricata.

È tempo di distinguere non i buoni dai cattivi (distinzione moralistica di nessun valore), ma gli amici dai nemici. Una distinzione strategica che, ben lungi dal rilanciare immaginarie liste di proscrizione, ci chiama piuttosto a riflettere (anche teoricamente) sul senso e sul significato dell’amicizia. “O amici, non c’è nessun amico!” ci ha fatto molto riflettere, ma non deve e non può impedirci di pensare l’amicizia – l’amicizia, non la fratellanza – anche come una pratica e un’esperienza di segno eminentemente politico.

(14 aprile 2020)

 

2 Responses to Un appello per la “Fase 2”. Mettersi in gioco, organizzare le lotte dentro – e fuori – la filosofia

  1. Devo costatare che si continua a non capire che cosa sta avvenendo.
    Premettendo:
    1) che si continua ad usare i termini -filosofo, intellettuale, cultura- in modo inappropriato e congruente alla logica dei messaggi massmediali;
    2) che si continua, anche se non espresso formalmente, a considerare la sinistra come un partito da corsa al potere e, quindi, a non aver capito se non letto, se non in parte molto parziale, la base teorica della sinistra che sono gli scritti di Marx (di cui il “Capitale” è il cuore), Lenin, Gramsci, … ;
    3) che si continua ad usare le espressioni di “lotta” come azione sociale da perseguire per modificare i comportamenti dei rappresentanti del potere.
    Per quanto riguarda il punto 1), secondo il pensiero comune, :
    • Il filosofo e normalmente inteso come un laureato in filosofia, possibilmente con ruolo universitario, cosa che non da nessuna garanzia di correttezza nell’uso del pensiero (del cervello);
    • L’intellettuale dovrebbe essere una professione di esercizio comunicativo delle proprie conoscenze, attualmente e generalmente un filosofo in campo nel mondo massmediale al servizio dell’ “audience”;
    • La cultura generalmente è intesa come il prodotto di testi (cartacei o informatici) che sono di fatto gestiti dalle case editrici per motivi puramente economici.
    In modo molto semplice, e non per questo meno vero, gli intellettuali (i filosofi) sono tutti gli esseri umani pensanti (a prescindere dai propri titoli e dai propri ruoli) capaci di comprendere (come specie animale) il mondo in cui vive e nel quale agire con i propri comportamenti.
    La cultura è solo il sinonimo di “conoscenza”, della trasmissione delle esperienze acquisite e trasmesse in modo verbale o con i mezzi di trasmissione dei propri tempi. La conoscenza non è solo quella della comprensione del meccanismo sociale o tecnologico ma è quella della comprensione del rapporto uomo-natura di cui l’aspetto umano di organizzazione sociale è solo una parte molto limitata.
    Per quanto riguarda il punto 2), espresso secondo il pensiero comune della cosiddetta sinistra, :
    • Gli scritti, in particolare di Marx e specificamente nel Capitale, non sono delle tesi (o Bibbie) ideologiche a sostegno di una parte sociale ma sono una teoria scientifica, in quanto tale soggetta a verifiche e modifiche come tutte le teorie scientifiche. Marx nelle tesi espresse analizzava il sistema del mondo organizzato sulla base della produzione economica da cui derivava, rilevandone le conseguenze sui ruoli umani, l’esigenza di modificarne la logica speculativa.
    Per quanto riguarda il punto 3):
    • Il termine di “lotta” è diventato completamente obsoleto, usato e abusato da tutte le parti ufficiali comprese le organizzazioni presunte rivoluzionarie. Mentre nell’ottocento e nel primo novecento si potevano individuare le classi a cui riferire la “lotta”, nella fine del novecento e nell’epoca attuale le categorie sfruttate non sono più verticali proletariato-padrone ma sono miste-sfumate trasversali e verticali spesso senza un’identità precisa. In quest’ambito la lotta, se si può parlare di lotta e non di modifica imposta, non è più diretta ma è sfumata e, a mio avviso, può avvenire soltanto attraverso una diffusione della “conoscenza”, a qualunque livello possa avvenire, dal comprendere come scopare un giardino a comprendere i movimenti della costellazione di “Andromeda” che si scontrerà (tra non molto in tempi intergalattici) con la “Via lattea” di cui facciamo parte.
    In generale e riferendomi al concetto di “amicizia” è assolutamente sbagliato invocare un concetto usato molto dalla destra liberale e dal clientelismo, per il semplice motivo che tutti gli esseri umani sono amici perché sono tutti legati alla componente biologica di sopravvivenza della specie.

  2. Maurizio says:

    Perfettamente ragione allo scritto qui sopra,le parole sono tante ed ogniuna ha il suo valore ,l’interpretazione il più delle volte è superficiale .La conoscenza poche l’anno e di questa capacità è lecito proteggerla averne cura ed imporla con cautela ma con la forte necessità della quale non se può fare senza.

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