di Massimo Filippi

 

Ci sono sempre due morti, quella vera e quella che sa la gente.
Jean Rhys, Il grande mare dei sargassi

 

1. Ho deciso di scrivere questo contributo dopo lunga riflessione e molte esitazioni. Il perché è presto detto: a fianco di quella dolorosa e letale del Covid-19, si è sviluppata un’altra pandemia che frequentemente ha assunto tratti molto avvilenti e tristi, se non addirittura gretti. Si tratta della pandemia di chi in quest’ultimo mese – o poco più – ha coinvolto una pletora di filosofi che ci ha inondati di saggi in cui l’emergenza in corso è stata utilizzata come prova della validità delle loro teorie – teorie in grado di spiegare pressoché tutto quello che è accaduto a partire dal Paleolitico.[1] E, poi, una pletora di scienziati che, autoproclamatisi esperti di qualcosa che nessuno conosce, ci dice una cosa oggi per smentirla e sostenere l’opposto domani. E, infine, una pletora di politici, industriali, giornalisti, cantanti, speculatori, faccendieri… che strumentalizza la crisi sanitaria per favorire i propri interessi più o meno meschini. Ovviamente trincerati dietro gli schermi dei loro computer, mentre là fuori si continua a soffrire e a morire soli. O, forse là dentro: in casa, negli ospedali, nelle RSA, nelle carceri, nei CPR…

Willy Verginer, scultura in legno

2. Questa è la situazione da cui – e lo stato d’animo con cui – prendo parola. Ma perché alla fine ho deciso di prenderla? Semplicemente, per provare a portare in superficie un aspetto che, seppur centrale, mi pare che ancora non sia stato preso in seria considerazione. Qualcosa di normalmente invisibile – come il virus? –, ma che comunque, piaccia o no, scava la cultura maggioritaria, ne costituisce il margine interno nella forma della negazione forcludente.

Poiché soggetto e oggetto – ammesso che questi termini abbiano ancora un senso – sono intimamente interrelati, o meglio, intra-agiscono ininterrottamente nei processi che li materializzano,[2] è necessario assumere una postura e uno sguardo consoni a ciò con cui ci si intende confrontare. E ciò che ci troviamo di fronte è qualcosa di inaudito e imprevedibile. Qualcosa che, quindi, richiede uno sforzo di pensiero e una buona dose di pudore al fine di comprendere le modalità di rimaterializzione dentro questo fenomeno, che cosa significhi “noi” e “non-umano”, come si stiano muovendo i “nostri” confini (interni ed esterni), quali siano i nuovi affetti e le nuove passioni dei corpi (“nostri” e “loro”). L’assunzione, insomma, di una postura e di uno sguardo necessariamente defilati, anomali, minoritari. Come quelli di Oskar Matzerath che solo da dietro una tribuna può comprendere i riti magici che la politica mette in scena o a quelli di Holden che, posizionandosi sulla soglia che unisce/separa il dentro dal fuori, è in grado di cogliere con inusitata leggerezza il sottinteso, il soggettile, l’occulta trama del mondo.[3]

3. È da questa prospettiva che è possibile cogliere quanto l’emergenza in atto metta in gioco il rapporto degli umani con gli altri animali. Non vi è dubbio, infatti, che quello a cui stiamo assistendo non sia ascrivibile esclusivamente alla biologia del virus ma anche – e soprattutto – a quanto possiamo riassumere con i termini, legati tra loro in un nodo indissolubile, di capitalismoantropizzazione globalizzazione.

Il capitalismo non è solo estrazione di plusvalore dal lavoro salariato; è anche – e soprattutto – accumulazione originaria: appropriazione dei corpi e del lavoro non riconosciuto e non pagato di chi non conta, di chi è costantemente smaterializzato. E una buona parte di questo lavoro invisibile (come il virus?) è prelevato, “tramite l’organizzazione e lo sfruttamento di una sopravvivenza artificiale, infernale, virtualmente interminabile”, da quei viventi a cui abbiamo dato il nome di “animali” che, rinchiusi “al di fuori di ogni supposta norma di vita”[4] e grazie alle condizioni di sovraffollamento e di miseria degli allevamenti e dei mercati, vengono trasformati, tra le altre cose (carne, esperimenti, abbigliamento, intrattenimento…), in potenziali serbatoi di agenti patogeni che possono poi proliferare, mutarsi e diffondere.

L’antropizzazione senza limiti del pianeta, a sua volta, comporta una drastica riduzione delle Umwelten degli animali cosiddetti selvatici e dei loro virus e, di conseguenza, lo scatenarsi di contagi negli agglomerati urbani limitrofi. La globalizzazione, infine, con le sue reti di trasporto, sempre più rapide e sempre più a distanza, conclude e porta a compimento l’opera di distruzione di massa per moltiplicazione. In breve, è la continua espansione – estensiva e intensiva – del Capitale ad aver prodotto le condizioni affinché Covid-19 potesse diffondersi nel modo che stiamo drammaticamente imparando a conoscere.

Ebbene, quante voci si sono alzate per provare a pensare un’uscita politica dal Capitale, dai suoi meccanismi di estrazione animalizzante, dalla sua gestione di ciò che i corpi possono? Augurarsi che il virus acceleri con una sorta di scarica automatica la decomposizione del sistema in cui viviamo non ha chiaramente nulla a che fare con la ricerca di un’uscita politica che è, ricordiamolo, teoria/prassi che mira a istituire nuovi rapporti di forza. Ancora una volta le risposte che siamo in grado di offrire sono di natura tecnica ed emergenziale se non, più semplicemente, ridicole fantasie allucinate, più o meno utopiche o più o meno distopiche. Questa crisi, per chi può vedere, porta alla luce il punto cieco di tutta la speculazione filosofica occidentale: l’incapacità di pensare l’Animale. E conferma la disperata e impietosa diagnosi di Mark Fisher, secondo il quale ci “è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”.[5]

4. Forse, però, c’è qualcosa di ancora più invisibile che attraversa da parte a parte questa crisi: la categoria di specie. Prima però di affrontare questo rimosso che non ritorna, è necessario fare un passo indietro.

Al pari delle cesure e dei tagli operati dalla razza e dal sesso/genere, anche quelli della specie sono politici. La classificazione dei viventi a partire da dati biologici, infatti, non si esaurisce in una descrizione fintamente innocente e neutra; al contrario, essa è un’operazione che eccede immediatamente nel più-che-biologico: rendendo alcuni tratti di per sé “muti” (il colore della pelle, la morfologia dei genitali, il numero delle zampe…) socialmente eloquenti, la classificazione del vivente è operazione eminentemente performativa. Nel momento stesso in cui le istituisce, essa ricompone le divisioni al fine di produrre un’ideologia giustificazionista atta a perpetuare lo sfruttamento e la messa a morte non criminale dei corpi animalizzati come subumani o non-umani che, come tali, sono perennemente sacrificabili alla logica dell’estrazione/appropriazione di valore.[6]

Il che, a ben vedere, non è una grande scoperta. È semplicemente un allargamento di prospettiva, o meglio, l’assunzione di una prospettiva minore – da dietro le tribune o sulle soglie del mondo dell’umano. Almeno a partire da Foucault, dovremmo sapere che, da qualche secolo, vita e politica sono entrate in uno stato di intreccio/sovrapposizione sempre più intenso e sempre più incandescente. Altrettanto facilmente, oltre Foucault, dovremmo essere oggi in grado di comprendere che la gestione della vita (anche umana) passa non solo attraverso i dispositivi di razzializzazione e di sessualizzazione, ma anche attraverso quello di speciazione. Non dovremmo nutrire dubbi circa il fatto che la specie contribuisca alla costituzione del biopotere, che non è mai stato solo far vivere, ma anche respingere nella morte,[7] come accade ogni giorno a incalcolabili schiere di altrimenti-che-umani. Biopolitica e necropolitica sono indissociabili, come le due facce di uno stesso foglio, intra-agiscono e trapassano l’una nell’altra al pari delle costruzioni rappresentate nelle opere di Escher. Indissociabili anche per coloro che sono materializzati come umani. Questa è la possibilità dell’impossibile che l’Animale ai tempi del coronavirus non cessa di non in/scrivere nella carne che dunque siamo.

Willy Verginer, scultura in legno

5. In poche parole, la specie è innanzitutto specie umana – ecco uno dei tanti aspetti occultati dalla barra della dicotomia umano/animale: la specie serve a differenziare l’Uomo dal resto del vivente e non un qualche gruppo non umano da qualche altro, le giraffe dai calabroni per esempio.

Con questo pur limitato equipaggiamento possiamo ora tornare a ciò che oggi invisibilmente trapassa la categoria di specie (umana). Non vi è dubbio che uno degli aspetti teorici più perturbanti, ma non per questo ancora pensato, messi in circolo dalla diffusione del Covid-19 sia l’oscillazione antinomica che scuote la categoria di specie, un’oscillazione che la mette in uno stato di tensione ancora più intenso di quelli causati dagli interventi di Darwin prima e dei promotori della nuova sintesi in biologia poi. Parlo di oscillazione antinomica perché, oggi più che mai, la categoria di specie si trova ad essere al contempo rafforzata e depotenziata.

Da un lato la categoria di specie (umana) si è rafforzata. Seppure con gradienti diversi – che ancora una volta esprimono il grado di maggiore o minore vicinanza all’Animale degli appartenenti alla specie Homo sapiens – oggi siamo tutti esposti al contagio e alle sue conseguenze letali. La diffusione del virus fornisce all’umanità un substrato materiale che la consegna a quell’universale che le finzioni del diritto le avevano offerto nel momento stesso in cui glielo sottraevano. Ciò che in questo evento accomuna l’umanità è la nuda vita dell’umano in quanto solo umano, nuda vita che con le sue caratteristiche biologiche ci fa accedere alla condizione che Lacan ha chiamato tra-le-due-morti, tra la morte potenziale e la morte attuale.

Questo è certamente un cambiamento epocale, dal momento che la comunità umana ha sempre cercato di fondarsi su presupposti culturali, sulla vita vestita, che con lo stesso gesto, e nello stesso chiasma, includeva alcuni per escluderne altri (e viceversa). Di questo è eminente testimonianza la figura dell’apolide in Hannah Arendt: “Un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile”[8] o l’astuzia della Dichiarazione del 1789 che, implicitamente, riconosce gli umani non in quanto tali ma in quanto cittadini. L’essere posti nell’eterotopia del tra-le-due-morti è l’universale concreto che, in un modo che non abbiamo mai esperito con tanta intensità, ci accomuna tra noi e con gli altri, con gli oppressi di ogni specie che abitano, da così tanto tempo, il tempo e lo spazio dei morti viventi. Forse, a partire da qui, da questo antirazzismo biologico dovremmo cominciare a pensare/praticare quella via di fuga politica a cui si è fatto cenno.

Dall’altro lato la crisi presente depotenzia con una forza senza precedenti la categoria di specie. Fino a Linneo, per la scienza e il senso comune, le specie erano fisse dall’eternità e per l’eternità. Con Darwin si sono rimesse un po’ in moto: attraverso mutazioni genetiche casuali e l’opera della selezione naturale, nel corso dei secoli, può accadere, seppur raramente, che da una specie ne nasca un’altra. Da un punto di vista filosofico, seppur con sfumature diverse, la specie (umana) è invece stata costantemente molto agitata al suo interno – è sempre stato facile esserne espulsi o non potervi accedere nonostante si possedessero tratti biologici incontestabilmente umani – e completamente immobile verso il suo esterno, separata com’è da tutto il resto da una cesura così profonda che Heidegger non esitò a chiamare abissale.

Con il capitalismo, però, le regole del gioco di specie cambiano. Pur nutrendosi della differenza umano/animale, l’impresa capitalista non si arresta di fronte alla barriera di specie e anzi si fonda proprio sulla messa a profitto di qualsiasi corpo, non importa se “umano” o “non umano”, purché possa rivelarsi ri/produttivo. La bioingegneria assesta un’ulteriore ferita alla categoria di specie, agitandola ancora di più sia dentro che fuori. Come il capitalismo, infatti, anche la bioingeneria, pur partendo dalla più intransigente separazione umano/animale, non ha temuto di oltrepassarla “creando” esseri – il più tristemente famoso dei quali è l’oncotopo – nei quali non è più possibile dire dove finisca l’umano e dove inizi l’animale.

In breve, il sistema egemonico attuale è poco o per nulla interessato alla categoria di specie nel momento stesso in cui ne è funzionalmente saturo. Ed è qui, in questo crocevia storico, che irrompono con inaudita violenza le zoonosi, quelle malattie che, superando l’abisso simbolico e immaginario posto tra l’Uomo e l’Animale, ci espongono al Reale della vita qualunque che, sorta di pulsione di morte ontologica, percorre impersonalmente l’intero vivente di cui, ci piaccia o meno, siamo parte. Il famoso salto di specie – di cui tutti parlano senza problematizzarlo – dovrebbe spingerci a un sussulto di pensiero, una volta che facciamo l’“orribile scoperta” di “quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferenza informe, in quanto la sua forma è per se stessa qualcosa che provoca angoscia. Visione di angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo – Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe”.[9] Ancora una volta – differenza e ripetizione –, forse, a partire da qui, da questa orribile scoperta dovremmo cominciare a pensare/praticare quella via di fuga politica che ci fa cenno.

6. L’oscillazione della categoria di specie ci pone di fronte a un vero e proprio aut aut. O lasciamo che l’Animale torni a essere obliterato/smembrato dall’incedere perentorio dell’Umano o iniziamo a riconoscerci in lui (o in lei?), nella comune mortalità e finitezza. Aut aut che si ripresenterà a breve negli strascichi economici e sociali della crisi e nel modo in cui si deciderà di affrontare la pandemia a venire – con la solita irrespirabile politica tecnica o con nuove tecniche politiche capaci di restituire alla Terra e ai suoi abitanti il loro respiro? La disperata speranza che percorre queste pagine – il divieto di “dare espressione alla speranza” come “ultimo rifugio della speranza”[10] – è che queste domande non siano domande retoriche.

La Bestia e il Sovrano. Il capitalismo e la schizofrenia. Il Virus e la Specie. Nell’oscillazione la… il[11] si giocano la sopravvivenza e il pensiero nel tempo tra-le-due-morti. Ormai solo un Animale ci può salvare.

(11 aprile 2020)


[1] ^ Per un approfondimento sulla insofferenza verso la covid-filosofia, vedi il contributo di Alessandro Dal Lago, La filosofia e il dolore degli altri, pubblicato su questo sito.

[2] ^ Il riferimento è al lavoro neo-materialista di Karen Barad che, facendo intra-agire Derrida con la fisica quantistica, così definisce l’intra-azione: “Contrariamente alla nozione ordinaria di ‘interazione’ quella di intra-azione riconosce che entità, agenti, eventi distinti non precedono, bensì emergono dalla e attraverso la loro intra-azione” (Entanglement quantistici e relazioni ereditarie hauntologiche: dis/continuità, avviluppamenti spazio-temporali e giustizia-a-venire, in Performatività della natura. Quanto e queer, a cura di Elena Bougleux, ETS, Pisa 2017, p. 152). Dal che discende: “La realtà non è composta da cose-in-sé o da cose-dietro-i-fenomeni ma da cose-dentro-i-fenomeni. Il mondo è intra-attività nella sua materializzazione differenziale” e “Noi non siamo osservatori esterni del mondo. Né siamo semplicemente posizionati in particolari collocazioni nel mondo; piuttosto siamo parte del mondo nella sua continua intra-attività” (Performatività nel post-umanesimo: per comprendere come la materia diventa materia, in Performatività della natura, cit., pp. 47 e 59).

[3] ^ Ovviamente, mi riferisco a Günther Grass, Il tamburo di latta, tr. it. Lia Secci, Feltrinelli, Milano 1962 e a Jerome David Salinger, Il giovane Holden, tr. it. Adriana Motti, Einaudi, Torino 1961.

[4] ^ Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, a cura di Gianfranco Dalmasso, Jaca Book, Milano 2006, p. 64.

[5] ^ Mark Fisher, Realismo capitalista, tr. it. Valerio Mattioli, Nero, Roma 2018, p. 25.

[6] ^ Per un approfondimento di questo plesso teorico, mi permetto di rimandare ai miei L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri, ombre corte, Verona 2016 e Questioni di specie, elèuthera, Milano 2017.

[7] ^ Vedi, ad es., Michel Foucault, La volontà di sapere, tr. it. Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci, Feltrinelli, Milano 1978. Purtroppo è proprio questo saggio a mettere almeno parzialmente in ombra il “respingere nella morte”, in qualche modo depistando la riflessione successiva. Utile correttivo è Michel Foucault, “Bisogna difendere la società”, a cura di Mauro Bertani e Alessandro Fontana, Feltrinelli, Milano 1998.

[8] ^ Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di Amerigo Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. 416.

[9] ^ Jacques Lacan, Il seminario. Libro II, a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, p. 179.

[10] ^ Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, tr. it. Anna Solmi, Einaudi, Torino 2007, p. 378.

[11] ^ La… il è il ritornello derridiano, Fort/Da, che attraversa La Bestia e il Sovrano, tr. it. Guendalina Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009 e 2010, in cui intra-agiscono il filosofo francese, la differenza sessuale e il rapporto con gli altri animali.

 

 

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