di Nicola Gaiarin

Agnès Varda, La serre du bonheur

Verrebbe voglia di entrare in un lockdown mentale, per attenuare il rumore di parole che più aumentano di numero più perdono la capacità di dire davvero qualcosa. C’è chi ha notato come questo virus sia innanzitutto una straordinaria macchina comunicativa.[1] La dinamica tipica della comunicazione contemporanea – la notizia, il caso, l’evento mediatico – appare però totalmente alterata e deviata. Tutto sembra orbitare attorno a una singola notizia che sta rubando la scena, portando lo sforzo comunicativo in una direzione sola. Avendo abolito il fuori, con il mondo ridotto ormai a uno spazio astratto da attraversare in fretta per svolgere attività che rientrano solo nelle categorie dell’economico e del sanitario, la pandemia (ma sarebbe meglio dire la “gestione” della pandemia) ha abolito anche la dimensione tipica che contraddistingue l’atmosfera della notizia: se tutti stiamo vivendo, in misura diversa, lo stesso evento, non c’è nessuno che lo possa raccontare meglio di un altro. Ciascuno di noi si trova protagonista, a modo suo, di una specie di guerra al virus, almeno così ci dicono. Nel senso che, come se fossimo dei reporter di guerra, stiamo tutti osservando, seppure in modo parziale, un lato dello stesso iperoggetto virale. È la vecchia storia di Fabrizio del Dongo a Waterloo, raccontata in La certosa di Parma. A stare nel cuore della battaglia si sentono le pallottole che fischiano ma non si capisce, propriamente, un bel niente.

A funzionare meglio, a distinguersi, nel mare di notizie tutte uguali, sono icone e immagini che fino a poco fa parevano escluse dagli scambi e dalle chiacchiere abituali. Numeri, colonne colorate, grafici, mappe di diffusione del contagio, statistiche: sono gli accessi a una realtà che sfugge e che ci danno l’illusione di afferrarne almeno un lembo. Solo che si tratta di accessi tanto più problematici quanto più ci sembrano “naturali”. Dimentichiamo troppo in fretta che una statistica o un grafico sono soprattutto delle rappresentazioni e che potrebbe in primo luogo mancarci il codice per decifrarle. Senza tener conto che, in molti casi, viene meno il contesto di lettura cioè quello sfondo assolutamente non neutro, fatto di decisioni e omissioni, che ci permetterebbe di capire come quelle percentuali e quei numeri sono stati selezionati, montati e messi in scena. Non dirò manipolati, perché non ce n’è bisogno: si tratta comunque di un’oggettività costruita.

Ci aggrappiamo a immagini iconiche – come quella dell’infermiera stremata che dorme sulla scrivania – in un momento in cui la proliferazione delle cose da vedere rende impossibile distinguere davvero qualcosa. Ed ecco che un secondo codice si affianca al primo – quello apparentemente asettico dei numeri – con una forza che appare sconcertante: è il linguaggio dell’arte contemporanea, con immagini alle quali non siamo mai del tutto abituati, ma che, in qualche modo, siamo già disposti a ricevere. La piazza San Pietro vuota con il Papa che parla davanti al nulla non sembra venire direttamente da un’installazione o da una serie televisiva come Young Pope di Sorrentino? Non serve nemmeno dire che, tra Romero e Cronenberg o tra Ballard e Burroughs, c’è a disposizione tutto un setting da fine del mondo – che ha i bordi netti del modernismo del XX secolo – già pronto e che sembra fatto apposta per contenere le derive del nostro immaginario.

Nella desolazione di una narrazione collettiva che si rivela drammaticamente carente – e non mancano gli inviti a creare “più storie”, a generare uno storytelling supplementare, rivolto al futuro, al fantomatico “dopo”, come se si trattasse di suturare un corpo di senso frammentato – a moltiplicarsi sono le piccole storie, le immagini da casa, i diari dalla quarantena, che imperversano sui social e sui giornali. E se da una parte c’è in questo qualcosa di interessante, dall’altra ci dimentichiamo, forse, come si tratti di immagini e parole già codificate, che rientrano in frame o “format” anticipati dagli stessi canali che utilizziamo. Nello sforzo continuo di raccontare ciò che stiamo vivendo, sembriamo dimenticarci che la nostra esperienza, fissata in un post su Facebook o nello scambio di una foto con un amico, è già da sempre inquadrata in cornici che si potrebbero chiamare – senza metterci troppe virgolette – ideologiche. Inseguire una forma di normalità mi pare un’esigenza di tutti. Ad essere grottesca è la corsa a una normalità simulata che sembra star prendendo forma. Una galleria di immagini e parole che assomigliano a vecchie foto di famiglia in cui tutti – dalla zia avara al cugino idiota – sorridono in modo forzato, cacciando odi, meschinità e manie sotto al tappeto.

Quindi, per riassumere, c’è un discorso pubblico di una monotonia sconcertante che presenta, con regolarità degna delle vecchie previsioni del tempo, bollettini apparentemente autoevidenti. Affiora poi qualche immagine che buca la cortina del mormorio costante con un valore iconico basato su forme di somiglianza culturale (“sembrano gli eroi di un film di guerra, sembra l’11 settembre, sembra un’opera di Cattelan, sembra la città di un film di Romero”). E, infine, esiste una continua messa in scena personale sotto forma di diario del “resistente”, a base di dischi e libri preferiti, ricette per fare il pane in casa, video di cani o gatti, vignette umoristiche e corsi di yoga. Manca, in tutto questo, qualcosa che diventi in qualche modo un discorso collettivo, in grado di “fare comunità”.

Davanti a un evento che è caratterizzato dall’assenza di letture univoche (è il trionfo del capitale o l’inizio del suo affondamento? È il ritorno brutale del politico o la definitiva affermazione del primato dell’economico?) ci si trova davanti a uno scenario davvero paradossale. Siamo già, oggi, postumi. Non postumi come se stessimo facendo segno verso un “dopo” o un “post” legato a trasformazioni collettive. Siamo postumi nel senso che creiamo le nostre storie come se fossero i racconti tutti uguali di reduci che hanno preso parte allo stesso evento senza capirci granché. Se tutti stiamo combattendo la stessa battaglia, secondo la retorica guerresca imperante, davvero ci interessa come un altro stia vivendo una situazione identica alla nostra?

Per fare un unico riferimento filosofico, mi viene in mente quello che diceva Walter Benjamin, in un passaggio famoso, parlando della distruzione dell’esperienza nei reduci della Prima guerra mondiale.

Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca.[2]

La crisi dell’esperienza era in quel caso soprattutto un’incapacità di dire o far capire quello che si era vissuto. Ed è chiaro come, per lo stesso Benjamin, la perdita della capacità di comunicare fosse una crisi del racconto, che non poteva essere compensata dalla “fiumana di libri di guerra” usciti in seguito. La nostra attuale crisi, la crisi in tempo reale, mi pare soprattutto una riduzione della capacità di raccontare quello che stiamo vivendo. Una crisi del racconto che passa per l’eccesso e la moltiplicazione di cose fatte o cose viste che, in fin dei conti, non “fanno” esperienza perché sono tutte uguali. Circondati da un’atmosfera comunicativa liscia e asettica, in cui scambiamo e leggiamo pezzi di informazioni che determinano, metaforicamente e realmente, la temperatura della nostra “serra” personale, ci rendiamo conto di essere condannati a discorsi che diventano luoghi comuni nel giro di poche ore. Non siamo “ammutoliti”, come i reduci della grande guerra: c’è un eccesso di parola e di immagine. Qui sta il rovesciamento del punto di vista di Benjamin: l’evento non è incomunicabile perché singolare. La vita nella pandemia è ridotta a esperienza fin troppo comune, e quindi viene riassorbita nella noia dei fatti qualsiasi. Ma, viene da chiedersi, siamo davvero “solamente” quelle foto o quegli aneddoti o quelle frasi fatte o quei consigli di lettura? Parlano davvero di noi quei frammenti di un privato piuttosto triste, intercambiabile, da consigli per gli acquisti, che non arriva mai a rapprendersi in un senso complessivo? E se anche fossimo davvero “quella roba là”, quali sono le esperienze che sfuggono a questo spazio di rispecchiamento, alla bolla in cui continuamente ci viene rimpallata una narrazione priva di distanza? La nostra atmosfera comunicativa assorbe davvero la totalità di quello che l’altro ci potrebbe raccontare di sé?

E, infine, chi viene escluso da questo racconto? Quali sono le esperienze sottoposte a censura economica, sociale, psichica, estetica che potrebbero rappresentare l’altro lato o il “buco” che sfugge alle coordinate che ho provato a descrivere? Si tratterebbe di incominciare a lavorare sul racconto di tutto quello che, in questo momento, ci pare non dicibile e non mostrabile. La zona d’ombra che si sottrae alla luce fin troppo viva del discorso dominante.

8 aprile 2020

 


[1] ^ Si vedano il contributo di Nello Barile su Doppiozero, https://www.doppiozero.com/materiali/il-virus-e-il-messaggio-della-societa-automatica e, su questo stesso sito, la riflessione di Pierangelo Di Vittorio sugli effetti mediatici della pandemia, http://autaut.ilsaggiatore.com/2020/04/la-realta-e-i-cowboy/.

[2] ^ Walter Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 248.

 

 

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