di Pier Aldo Rovatti

 

La scuola italiana ha mille magagne che si trascina dietro come un carico che a volte pare ineluttabile e che diventa particolarmente sensibile e gravoso a ogni inizio di anno. Lasciamolo da parte per un istante, e guardiamo invece al compito decisivo al quale l’educazione scolastica è preposta: un compito enorme di civiltà rivolto ai nostri ragazzi al quale essa dovrebbe assolvere e che di fatto comunque assolve, nonostante le ataviche magagne che la tormentano, grazie a quegli insegnanti che meriterebbero un monumento, altro che le critiche rituali che ripetiamo a macchinetta. Non tutti, ovviamente, ma una parte significativa di loro.

Questo compito (che mi piace chiamare “enorme”) consiste – per riassumerlo in poche parole – nel mettersi di traverso rispetto alla routine consolidata della società in cui oggi viviamo: una società stretta, bloccata dentro una mentalità molto limitata che le famiglie quasi sempre incarnano e che con il loro esempio trasmettono automaticamente ai figli. Capita così che questi ragazzi, e anche bambini ai primordi delle loro esperienze scolastiche (perfino pre-scolastiche), entrino nelle aule già provvisti di comportamenti che li conformano alla società omologata a cui sono destinati. Pier Paolo Pasolini, per fare un nome, aveva percepito cinquant’anni fa questo trend di chiusura o di restringimento radicale delle chance di vita, lanciando un allarme che allora pareva esagerato e che adesso consideriamo normale.

Mettersi di traverso significa contrastare con gli strumenti della formazione culturale un simile blocco delle esperienze, facendo almeno intravedere tutti quegli altri orizzonti che pure esistono ma che la routine generalizzata e il pensiero unico che essa produce fanno sparire. E così scompare ogni futuro diverso, ma anche viene cancellata la potenza che sarebbe implicita nello stesso presente.

Come è stato opportunamente richiamato (da Benedetta Tobagi nel suo dialogo con Franco Lorenzoni comparso su “Repubblica”), la parola chiave che caratterizza tale routine è indifferenza, ed è allora qui che la scuola deve organizzare la sua battaglia se vuole tentare di assolvere al proprio compito.

Non sono un educatore professionale, tuttavia ho sempre osservato con attenzione il comportamento dei piccoli d’uomo, soprattutto nella fase in cui il bambino comincia a trasformarsi in un pre-adolescente. È proprio l’indifferenza il tratto che attualmente mi colpisce di più. Da sempre il genitore o il maestro di scuola stigmatizzano l’apatia e l’indolenza indifferente di figli e alunni, allo scopo di sollecitarne attenzione e curiosità. Ma solo adesso l’indifferenza si distingue dalla pigrizia ed è diventata una sorta di “qualità” che viene assorbita dal contesto microsociale e permette di collocarsi in esso in modo accettabile: insomma, il bambino si assesta in una condizione che talora pare quasi autistica, in un “suo” mondo (sempre più digitalizzato) privo di entrate e di uscite rispetto al mondo cosiddetto reale.

Chiudersi nell’indifferenza è dunque diventata una modalità di esistenza, insieme difensiva e integrante. La scuola tradirebbe se stessa se accettasse per buona e coltivasse tale maniera di adeguarsi alla routine sociale e culturale. Al contrario, deve lavorare come un reagente proponendo all’alunno esempi di diversificazione e, per così dire, di mondi alternativi. Educazione del cittadino o cultura critica possono restare parole vuote se non si caricano di questa apertura di orizzonti e della conseguente capacità di sbloccare schemi già fissati e articolare i grumi di identità stretta presenti fin dall’infanzia.

Ne va del piacere o del rifiuto di apprendere. Se un bambino si trincera in un “non mi piace andare a scuola”, di solito vuol dire che lo studio e il sapere non sono riusciti a forzare la sua indifferenza. Il bravo insegnante (mi verrebbe da correggere: il vero insegnante) è chi, dall’esterno rispetto alla routine, riesce a mostrare ai suoi alunni il bozzolo dentro cui si sono rinchiusi indicando loro che c’è un fuori nel quale possono avventurarsi. Ogni disciplina può essere insegnata così, cioè valorizzando di volta in volta la diversità delle epoche e dei luoghi, la molteplicità dei linguaggi, la capacità del sapere di modificarsi nel tempo e nello spazio, il ruolo dinamico e aperto della stessa scienza…

(E, intanto, eccomi qui ad apprestare il trolley con cui mio figlio, che sta facendo il salto dalle elementari alle medie, dovrà portarsi a scuola e riportarsi a casa ogni giorno chili di libri nuovi e alquanto costosi.)

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 7 settembre 2018]

 

 

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