di Pier Aldo Rovatti

 

Muri dovunque, non solo alzati contro la nostra volontà ma anche e spesso invocati. L’evento storico più clamoroso dell’epoca presente è stata la caduta del muro di Berlino, che separava le due Germanie. Se poi guardiamo ai muri reali vicini a noi, vengono subito in mente i muri dei manicomi che hanno cominciato a essere abbattuti proprio qui, prima a Gorizia e poi a Trieste.

I muri proteggono? È difficile continuare a crederlo, se ci riferiamo a quelli delle istituzioni chiuse, eppure in nome della sicurezza il numero di coloro che li considerano indispensabili per la tranquillità sociale è decisamente in aumento. La paura spinge questa convinzione e accade che la politica la cavalchi, non solo per quel che riguarda i migranti ma per difenderci contro i rischi di tutto ciò che si presenta come diversità o solo come imprevisto.

Costruiamo muri per separare da noi le zone rischiose: in queste “zone” rinchiudiamo individui e li chiamiamo “pericolosi”. Assurdo far credere che tali muri proteggano anche loro, eppure si è tentati di farlo, come è successo con gli internati dei manicomi cercando di convincerli che era per il loro bene; poi si capì che nessun internamento può essere spacciato come terapeutico, anzi finisce per produrre ulteriore malattia.

I muri reali hanno pesanti effetti sul nostro pensiero. Tendono a occupare la mente, quasi davvero la calcificassero. Quasi murassimo l’idea di libertà soffocandola lentamente, come se i muri entrassero nelle nostre teste cementandole a poco a poco ma irreversibilmente. Così, l’allarme sociale tende a raddoppiarsi in una sorta di tilt mentale: altro che pensiero unico, nel senso di una maniera di pensare omologata e uniforme, qui si va incontro a una negazione del pensiero al quale sta venendo a mancare – per dir così – la possibilità stessa di respirare. È dunque urgente domandarsi quali antidoti possediamo per evitare che il cerchio si chiuda. Abbiamo dei reagenti che impediscono questo effetto-muro destinato a bloccarci la testa?

Qualcuno, come ha fatto lo psicoanalista Massimo Recalcati (vedi “la Repubblica” del 16 luglio), risponde: “Il libro”. E ci invita a osservare un’installazione artistica (del messicano Jorge Mendez Blake) in cui si vedono un muro di mattoni e un libro che, infilato alla base, produce un leggero dislivello, una piccola incrinatura, capace però di squilibrarne la solidità. Già, ma quale libro riesce a farlo? Tutti quelli, spiega Recalcati, che non diventano libri “sacri” e dunque che non pretendono di essere il Libro che abbraccia il mondo.

Questa risposta forse ci aiuta a orientarci in una condizione di grande incertezza del discorso filosofico, dove sembra quasi impossibile ricorrere ai modi tradizionali di pensare, poiché ci accorgiamo quotidianamente di quanto siano asfittici e usurati, intrisi ormai in una calce ideologica. Categorie generali come razionalità, dialettica, oggettività, valore, sembrano infatti girare a vuoto, parole ormai svuotate di pensiero. Gli “ismi” non riescono più a squilibrare i mattoni del muro, anzi spesso contribuiscono alla loro tenuta.

Ma le risorse del pensiero non sono affatto esaurite. Abbiamo ancora strumenti per impedire che l’idea di muro cementifichi la nostra mente, a condizione però di essere capaci di attivarli. Occorrerebbe alleggerirsi dal peso del senso comune, che sarebbe un grande errore ridurre a stupidità perché, invece, è pieno di schemi e di “metafisiche” che funzionano alla stregua di potenti muri.

Un esempio: per usare in modo efficace le idee di “aperto” e di “chiuso”, che sono oggi particolarmente importanti per sapere che cosa significhi “libertà”, è necessario un lavoro di sfrondamento filosofico al quale non siamo per nulla abituati, una radicale riattivazione del pensiero critico, una rivoluzione delle nostre abitudini mentali. Operazione molto difficile, non impraticabile.

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 27 luglio 2018]

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