di Pier Aldo Rovatti

 

La parola inglese è upskirting. Significa spiare sotto le gonne, anzi si riferisce nello specifico al fotografare sotto le gonne servendosi di uno smartphone. È venuta alle cronache perché il governo inglese ha deciso di riconoscere un profilo penale a tale pratica, presso di noi poco o nulla frequentata ma che lì pare una molestia sessuale molto diffusa. Il divieto prevede fino a due anni di reclusione per chi eserciti abitualmente l’upskirting, e pensate che nella casa di qualcuno sono state rinvenute più di cinquantamila fotografie scattate in questo modo.

Insomma, non c’è termine al desiderio di molestare e alla sua assurda inventiva, non è però di questa tabe sociale che voglio qui parlare. Leggendo la strana notizia e apprendendo la curiosa parola che ne sarebbe il perno, mi chiedo se possiamo utilmente allargare il rimbalzo che si produrrebbe se rapportassimo un simile “spiare” al fiume di discorsi che stiamo facendo a proposito del tema politico per eccellenza: penso alla “trasparenza”, alle sue trappole e alla disinvoltura con cui la reclamiamo tutti a gran voce.

Il primo relais che mi viene alla mente, una volta che abbiamo esteso lo sguardo dalla molestia sessuale all’invadenza nell’intimità della vita privata di ciascuno di noi, è il nodo delle intercettazioni ambientali, proprio quelle, pur tanto discusse, che ci permettono di scoprire il fango del malaffare, di identificare le manovre corruttive e di snidare molti crimini. Le intercettazioni sono forse qualcosa di simile a uno spiare sotto le gonne?

Tutti condividiamo che esse debbano avere dei limiti e venire disciplinate, ma quasi nessuno sa bene come fare. Abolirle con un totale “omissis” non andrebbe infatti a vantaggio della trasparenza che cerchiamo. Mantenerle, come accade ora, lasciando all’inquirente di decidere su un certo numero di omissis a protezione della privacy dell’intercettato, apre un terreno assai friabile e aleatorio, come sappiamo bene da un certo numero di situazioni pregresse che si espongono al dubbio. E non è poi un dubbio così piccolo perché si tratta di stabilire niente meno che un confine tra ciò che è privato, e dunque a rigore inconsistente per l’indagine e offensivo per l’indagato, e ciò che è invece di interesse pubblico e magari essenziale per l’inchiesta giudiziaria.

Questa idea che si possa spiare qualcosa ma non tutto, salvaguardando insomma l’intimità della persona, sembra impraticabile con un minimo di serietà. Nel momento in cui ci si serve di un apparato per spiare, il rischio di oltrepassare quel confine che possiamo solo presumere è già implicito, quasi scontato, poiché è l’atto stesso del guardare “sotto” che non risulta completamente accettabile, come se un desiderio da voyeur guidasse comunque, e fin dall’inizio, il gesto dell’intercettare.

Alcuni magistrati di prima fila ci hanno poi messo in guardia dal fatto che proprio negli “omissis” si possono nascondere la chiave e le motivazioni di un gesto criminale: proprio là dove si entra surrettiziamente nel privato di qualcuno, e dove di solito ci si arresta, può diventare trasparente il gesto. Questi magistrati non li chiamerei né giustizialisti né incuranti dell’intoccabilità della privatezza. Sono semplicemente meno ipocriti perché sanno benissimo che quell’ipotetico limite è una finzione, messa lì apposta per salvare un poco le forme.

La trasparenza non è una questione così facile da maneggiare. Come la stiamo usando nei discorsi pubblici, e nelle implicazioni etiche che si vorrebbero difendere, mantiene un alone ideologico evidente. Essa non è un valore acquisito e immediatamente monetizzabile, è un problema irto di contraddizioni che occorre affrontare prima che ne diventi legittimo un uso politico generalizzato.

Nessuno vorrebbe mai farsi frugare sotto le vesti da un occhio e da un orecchio tecnologici, in grado di spiarlo scientificamente, di scomporlo nei dettagli anche più intimi, in una sorta di radiografia disciplinare da mettere agli atti insieme a milioni di altre. Eppure, è il caso di dire, benvenuti nella società che oggi sta cominciando a realizzarsi!

So che sembra reazionario dire che dobbiamo difenderci da una simile trasparenza totalitaria, perché occorre subito anche riconoscere che non possiamo accettare di vivere nella semicecità di chi non vuole darsi a vedere e a propria volta rifiuta di vedere se stesso e gli altri. Tuttavia, quel minimo di pensiero critico di cui ciascuno di noi può disporre, purché lo voglia, ci avverte che ha da esserci un modo intermedio capace di attraversare il problema e di orientarci. Dovrebbe trattarsi di un gesto che non spia e non minorizza l’altro, che non dà luogo ad alcun desiderio di molestare, insomma privo di qualunque violenza. Sì, ma… Ecco, dobbiamo avere la forza di rinunciare a questo “ma” dicendo contemporaneamente di no a ogni applicazione di tecniche panottiche. Dato il mondo di oggi, si tratta però di un compito quasi impossibile.

[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 22 giugno 2018]

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