di Pier Aldo Rovatti

 

Molti dicono: “Vediamoli al lavoro, aspettiamo i fatti”. Forse è il caso di aggiungere: “Sarebbe tempo che la campagna elettorale finisse”. Intanto, ecco le prime parole ufficiali del premier, non proprio entusiasmanti: una semplice “lista” (è il termine più usato dai commentatori) che sembra esitare sulle priorità del nuovo governo e contiene inoltre alcune omissioni, come la scuola e la cultura.

A quelli che dicono ragionevolmente di aspettare di vederli al lavoro si potrebbe altrettanto ragionevolmente rispondere che questo “lavoro” è già effettivamente cominciato e che non c’è bisogno di attendere mosse concrete per capire come sta avviandosi il processo che ci governerà e quali siano i problemi che ci attendono: non solo l’aria che tira, ma le contraddizioni che si affacciano. È infatti ben visibile fin dai preliminari, un particolare stile di governo, e anche le scelte che ne deriveranno si stanno delineando con chiarezza.

Magari verranno addolcite per non destare troppa preoccupazione, come nel caso dell’Europa e in quello impellente dei migranti, tuttavia la direzione di marcia, l’agenda politica e gli obiettivi da raggiungere sono già lì, sotto gli occhi di tutti. Quali decisive sorprese possiamo aspettarci nelle prossime settimane, quando i ministeri saranno al lavoro? Davvero qualcuno può sperare che lo scenario si modifichi in modo netto?

A quelli che si augurano che l’atteggiamento da campagna elettorale dovrà lasciare il posto a una pratica di governo più consona, è altrettanto facile rispondere che i proclami e la piazza rappresentano invece qualcosa di essenziale per la natura dell’attuale proposta politica, nel senso che una loro scomparsa snaturerebbe il carattere stesso del governo. E allora occorre chiedersi se davvero si possono conciliare “la scrivania” e il “predellino”, due cose che effettivamente non riusciamo a mettere assieme se non riandando a momenti cupi della nostra storia, ma che comunque stanno annunciandosi con percepibile evidenza.

Questo governo – si osserva – è indubbiamente a trazione leghista, e dovevamo aspettarci che alternasse sistematicamente la “scrivania” con il “predellino” e anzi che privilegiasse il rapporto empatico con il popolo all’attività dentro gli uffici e in mezzo alle scartoffie. Se la trazione politica è individuabile in uno “stile” del genere, che dà più valore alla piazza acclamante che alle aule del parlamento dove si dovrebbero discutere e confrontare le opinioni, che dire dell’altra parte, quella non trainante ma tendenzialmente trainata?

Qui l’anomalia si evidenzia in una apparente contraddizione di intenti: che cosa produrrà questa contraddittorietà tra un partito di destra e un movimento che non si dichiara né di destra né di sinistra, fondandosi però sulla trasparenza e sull’affrontamento delle questioni sociali, in una prospettiva di progresso democratico? Non lo sappiamo con precisione. Si tratta, come dice qualcuno, di due “libri” molto diversi, quello dei “sogni” contrapposto a quello delle “paure”? Mi sembra eccessivo, poco realistico, fermarsi a una simile contrapposizione.

Poco realistico perché la parte “trainata” (il termine è brutto, lo so, ma l’impressione è proprio questa) si è già necessariamente disposta a un compromesso da cui conta di ricavare importanti effetti sociali, e la divisione dei ministeri ne sarebbe la prova. Tuttavia non deve neanche sfuggirci il fatto che il compromesso è stato possibile perché esistono, oltre alle evidenti difficoltà (i “libri” sono certamente diversi), anche alcune affinità, per esempio il riferimento diretto alla piazza.

Se esaminiamo il cosiddetto “contratto”, se poi teniamo conto della manifesta distanza e vaghezza dei discorsi attraverso i quali il presidente del consiglio (in quota Cinquestelle) ha ottenuto il voto di fiducia del Parlamento, ci accorgiamo che esistono delle dimensioni comuni che hanno a che fare, per esempio, con la politica estera, con i dubbi nell’Europa, con la simpatia per la Russia di Putin. Ma soprattutto che riguardano una mobilitazione permanente, una sorta di campagna elettorale non stop, in ragione proprio del carattere di movimento di questa parte politica.

Se non è esattamente il “predellino” di berlusconiana memoria, è comunque l’esigenza di controllare in ogni momento il polso dei militanti, con l’occhio rivolto alle ascese e alle eventuali cadute dei sondaggi. Anche qui la “scrivania” è un luogo difficile da frequentare, o forse una modalità politica da apprendere, magari con qualche voglia in più di farlo.

Ci chiediamo con una certa inquietudine come si possa pensare di governare con uffici ministeriali poco valorizzati e palchi molto affollati. La parola magica di questi giorni, “disintermediazione”, non può diventare per i problemi dei cittadini un passepartout buono per tutti gli usi.

[Pubblicato su “Il Piccolo” l’8 giugno 2018]

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