di Pier Aldo Rovatti

 

In alcune pagine della sua fondamentale e a tutti gli effetti unica opera, La persuasione e la rettorica, scritta più di cent’anni fa, Carlo Michelstaedter costruisce una curiosa storia filosofica, “esemplare” e “triste”. Protagonisti ne sono Socrate, Platone e Aristotele. Da questa “istoria” dipenderebbero tutte le vicende del nostro pensiero ma anche tutto il senso del nostro attuale darci da fare.

Forse è azzardato affermare che il suicidio di Michelstaedter, a soli ventitre anni, maturi proprio dalla constatazione che la tristezza che ne promana è incurabile. Comunque, da qui sgorga un’onda pesante di pessimismo sulla credibilità delle cosiddette “magnifiche sorti e progressive” di una civiltà che si snoda nei millenni, fino a lambire anche il nostro tormentatissimo presente. Non a caso, la sua è stata definita “un’inesauribile profezia”.

La storia che ci racconta inizia così: “Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava d’esser soggetto alla legge di gravità…”. Si impegnò allora con ogni mezzo per sconfiggere il peso ma non riuscì a volare fino al sole e neppure a restare sulla terra, rimase a mezzo tra la libertà e la schiavitù, tra la felicità e la miseria. Platone fu turbato da questa “meravigliosa fine” del maestro e perciò si diede a costruire una complicata macchina che lo sollevasse fino al sole: un grande globo rigido di acciaio, un mirabile “aerostato” svuotato dell’aria e riempito di “assoluto”, sul quale si imbarcò assieme ai discepoli.

La partenza fu entusiasmante, tuttavia, arrivato ai limiti dell’atmosfera, l’aerostato perse velocità, cominciò a ondeggiare, si arrestò. Guardate in basso – diceva Platone ai suoi discepoli – potete contemplare le cose nella loro totalità: abbiamo finalmente conquistato la “leggerezza”. Ma i discepoli non capivano di quale leggerezza lui parlasse, erano incerti, il tempo trascorreva monotono, non c’era vita. Finché uno di loro, cioè Aristotele, vedendoli estenuati, non propose di far entrare aria nel meccanismo, e così l’aerostato cominciò a scendere e a scendere tra l’entusiasmo dei discepoli e la perplessità di Platone, giù fino alla terra. Aristotele aveva capito che la vagheggiata leggerezza poteva diventare il nome di un sistema, e che non c’era bisogno di aerostati per “contemplare la sostanza nel suo complesso”. Accadde così che “tutta la gente accorreva da lui per prendere la merce che veniva dall’assoluto”.

Il racconto di Michelstaedter è rapido, quasi fulminante. A parte, gli dedicò poi un’ampia appendice che figura nell’edizione critica di La persuasione e la rettorica (curata da Sergio Campailla per Adelphi nel 1995). Se ne riparla adesso in occasione della pubblicazione (presso Castelvecchi) di un volumetto titolato L’aerostato della filosofia, che stralcia le pagine del suddetto racconto unendovi quelle dell’appendice: una buona opportunità per far conoscere Michelstaedter e per rilanciare un tema di riflessione di indubbia attualità, il rapporto tra filosofia e assoluto.

È un tema che attraversa tutto il pensiero moderno il quale vorrebbe secolarizzarsi da ogni fuga nella trascendenza e radicarsi nell’orizzonte dell’immanenza, passando per Spinoza e approdando allo “spirito assoluto” di Hegel, insomma tentando di dar corpo e movimento dialettico al progetto di Aristotele. Sappiamo come il nichilismo di Nietzsche sopraggiunga a sbarrare la strada a ogni simile rinascita dell’assoluto, a ogni dissimulato aerostato filosofico che pretenda di arrivare fino al cielo. Michelstaedter, in fondo, respira la stessa aria di Nietzsche ma vi aggiunge di suo l’arma affilata della critica alla “rettorica”, vista come una lente – non illusoria poiché la retorica è di fatto il dispositivo sociale in cui viviamo ancora oggi – che deforma e volgarizza la pretesa aerea della filosofia.

Tuttavia non credo che la scena di Aristotele piazzista dell’assoluto – la quale appunto condurrebbe di filato a un qui e ora ben noto dove i filosofi “volano basso” per poter vendere meglio le loro merci all’apparenza griffate – sia l’aspetto più interessante e provocatorio della profezia di Michelstaedter. A mio parere, nella sua “triste istoria” viene piuttosto anticipata quella condizione molto scomoda e sospesa che ci avvicina semmai al fallimento di Socrate.

Strano chiamare la sconfitta di Socrate una “meravigliosa fine”. È come se Michelstaedter vi prefigurasse, forse senza sentirsi all’altezza, quel difficile equilibrio, di cui oggi siamo ben consapevoli, tra il desiderio di volare in alto e l’attrazione costante verso il basso: il primo risulta sempre frustrato, la seconda appare inevitabile. Ma questo su e giù può essere anche qualcosa di diverso da uno scacco tragico. È vero che a ogni angolo di strada incontriamo oggi qualche venditore di assoluto, spesso spacciatori di merce adulterata con un vago sapore di libertà. Dobbiamo riconoscerli e smascherarli, ma per far che? Non per negare la nostra tendenza a salire in alto. E neppure per accontentarci di una mediocre caduta in basso. La leggerezza non è né la costruzione di un vuoto pneumatico, né il tentativo di scendere fino a un minimo sopportabile. Come ci insegna il Socrate di Michelstaedter, essa consiste piuttosto nel riuscire a oscillare tra due poli, sdrammatizzando per quanto ci è possibile questa condizione di sospensione.

Non raggiungeremo mai l’assoluto, ma saremmo sciocchi se negassimo l’anelito verso l’alto: la lezione che forse possiamo ricavare dall’apologo, entro cui Michelstaedter stringe il senso complessivo della saggezza filosofica, è che dobbiamo stare dentro la contraddizione e possibilmente manovrarla a nostro vantaggio. Che lui, esistenzialmente, non ce l’abbia fatta non significa che il suo pensiero sia perdente. Se lo fosse davvero, perché ostinarci a considerare così importante (e poco ascoltato) quel che tenta di dirci nelle sue pagine?

 

[pubblicato su “Il Piccolo”, 10 aprile 2015]

 

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