di Pier Aldo Rovatti

Un oceano di persone è scesa in piazza a Parigi dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, seguita da quella al supermercato ebraico. La condanna del gesto terroristico ha fatto il giro del mondo, nelle piazze e sui media. Milioni e milioni hanno gridato il loro no, affratellandosi allo sdegno dei parigini. Uno sdegno planetario sicuramente destinato a lasciare una scia tanto lunga quanto grande è stata la ferita prodotta da un evento forse prevedibile, in realtà del tutto inatteso. L’immagine dei 44 capi di stato in testa alla “marcia repubblicana” di Parigi resterà stagliata nella mente dei contemporanei, simbolo della sollevazione spontanea necessaria contro una violenza atroce e gratuita.

È risuonata forte la parola “libertà”, come è giusto: questo atto di guerra era dichiaratamente un attentato contro quella libertà di espressione che consideriamo la radice della nostra stessa idea di cultura e delle sue pratiche. “Non siamo sottomessi” – ecco il cuore del grido di protesta che si è alzato, accompagnato da un’eco altrettanto fragorosa: “Non abbiamo paura”.

Libertà è una parola bellissima, spesso però rischia di diventare eterea e consolatoria. La si appella soprattutto quando ci si sente minacciati, tuttavia non basta invocarla. La paura è qualcosa di più concreto, la si vive qui e ora, quasi fisicamente. E se chiedessimo a ciascuno di coloro che si sono riversati nelle piazze “Hai paura?”, è difficile credere che la risposta sarebbe “No, non ho paura”. D’altronde, è stata puntualmente documentata dai giornalisti anche durante la straripante manifestazione: “Sì, abbiamo paura!”. Da intendersi, senza ombra di dubbio: “Non ci sentiamo liberi” o anche “Ci sentiamo sottomessi”.

La paura in questione non è un fatto nuovo, adesso con evidenza è esacerbata dall’episodio di guerra terroristica. Ma quale è di preciso questa paura, che cosa c’è dentro? Come tanti, credo che non possiamo cavarcela solo con formule del tipo: è la paura dell’altro. La paura di un nemico impazzito e invisibile, di un qualcosa simile al male che sta proliferando silenziosamente e che può colpirci a ogni istante e in ogni luogo.

Di fronte a questo Nemico saremmo semplicemente impotenti: possiamo soltanto esigere più controllo, più polizia, più repressione, però così dovremmo anche rinunciare a un poco delle libertà di movimento di cui siamo giustamente fieri. Ci rendiamo conto che non basta un rito pubblico attraverso il quale stringerci simbolicamente in un abbraccio: il giorno dopo ciascuno sarà ancora solo con la propria paura. Quell’abbraccio resterebbe un gesto vuoto se non producesse contromosse repressive, materiali ed efficaci.

Ma la nostra paura – che è un fatto incontestabile – non contiene forse anche qualcosa di meno scontato che facciamo fatica a vedere? Non è anche in qualche modo una paura che nasce da noi stessi? Della friabilità o solo della tenuta di ciò che abbiamo archiviato come valore intangibile, ovvero di un’idea di vita e di umanità che consideriamo universalmente vera? Intendo, per farmi capire al volo, che è il contatto con un’esperienza nella quale la morte viene talmente svalorizzata da apparire insignificante, che ci terrorizza.

Ipotizza che al fondo delle nostre paure paralizzanti, dietro e dentro i motivi evidenti dell’attuale condizione di soggetti impauriti, ci possa essere anche il timore di una messa a repentaglio di quell’idea di dignità umana sulla quale è stata edificata gran parte della nostra gloriosa cultura. La guerra che sta forse cominciando ci atterrisce perché ci costringe a ripensare nientemeno che il senso della vita e della morte, aprendo uno scenario nel quale quei nostri sacrosanti valori sembrano, alla fine, messi a rischio, denudati e forse fragili.

[uscito su “Il Piccolo”, 16 gennaio 2015]

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