di FELICE CIMATTI  
[dal n. 363/2014 di “aut aut”]

 

Quanto grande dev’essere la violenza da fare al pensiero per diventare capaci di pensare, la violenza di un movimento infinito che ci priva al tempo stesso del potere di dire Io?[1]


 

1. “La nostra impresa più difficile”

Immanenza. È una nozione difficile da articolare, perché se per spiegare un concetto si ricorre a un altro concetto, al suo contrario o a uno simile, questo non si può fare per l’immanenza, che è un concetto limite, che assorbe in sé tutti gli altri, e li annulla. L’immanenza non è propriamente il contrario della trascendenza. È questa che ha bisogno dell’immanenza, come suo contrario, per precisare se stessa, per definirsi come l’ambito di ciò che non è immanente, non è mondano, non è terreno. L’immanenza è lo spazio che si apre quando tutti i dualismi sono stati superati, e non rimane che un unico ambito, quello appunto dell’immanenza. Uno spazio che proprio per questa ragione è impensabile e indicibile: “Il piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile”.[2] Non si può pensare, ché per pensarlo occorrerebbe essere al suo esterno, ossia nella trascendenza; per la stessa ragione non può dirsi, perché il linguaggio incarna l’essenza stessa di ogni dualismo, della cosa e del segno, del significato e del significante, del contenuto e dell’espressione. È difficile quindi pensare l’immanenza.

C’è solo un modo per avvicinarci a questo pensiero limite, immaginare il percorso che potrebbe portare a vivere la condizione impensabile dell’immanenza. Anche se l’immanenza non ha bisogno della trascendenza, tuttavia ci può essere immanenza solo per un vivente che sia passato per la trascendenza. Solo questo vivente, infatti, può desiderare di vivere in una condizione non segnata dalla trascendenza.[3] Un albero, o un sasso, non vivono nell’immanenza, sono rispettivamente un sasso e un albero, senza altre qualificazioni. È il vivente segnato dalla trascendenza, l’animale che parla – l’animale che dice di sé di essere un Homo doppiamente sapiens – che invece aspira a una condizione non scissa, unitaria, semplicemente vivente. Un desiderio che non può provare chi prima non abbia attraversato la scissione della trascendenza. Quello dell’immanenza è un orizzonte, non un’origine:

Sul nuovo piano, il problema potrebbe riguardare l’esistenza di colui che crede al mondo, non come esistente, ma come possibilità di movimenti e di intensità, atti a generare ulteriori e nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventato la nostra impresa più difficile o l’impresa di un modo di esistenza da scoprire oggi sul nostro piano di immanenza.[4]

Qui si propone di “scoprire” questa nozione attraverso un confronto fra la nozione di “divenir-animale” di Deleuze e Guattari,[5] che è uno dei modi in cui provano a pensare l’impensabile immanenza, con un breve testo di Kierkegaard,[6] Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.[7]

 

2. Divenir-animale

Che cosa vuole divenire, il “divenir-animale” dell’animale che parla?[8] Deleuze e Guattari lo esplicitano subito: non è una evoluzione, una imitazione, una rassomiglianza. Il divenir-animale non si inscrive nella millenaria storia occidentale che tratta l’animale come esempio o termine di confronto (negativo) rispetto all’umano.[9] Il divenir-animale è una “involuzione”, cioè “una forma di evoluzione che avviene tra elementi eterogenei, a condizione, soprattutto, che non si confonda l’involuzione con una regressione. Il divenire è involutivo, l’involuzione è creatrice. Regredire è andare verso il meno differenziato. Ma involvere è formare un blocco che fila secondo la propria linea, ‘tra’ i termini messi in gioco”.[10] È una direzione di movimento, un orizzonte, un modo per avvicinarsi all’immanenza.

La posta in gioco del “divenir-animale” è allora l’immanenza, di questo ci parlano Deleuze e Guattari. La condizione perché questo movimento possa effettuarsi è che il flusso del divenire non sia ostacolato, che non ci siano sostanze che si proclamino autonome e autosufficienti. Questa sostanza è il Soggetto. Il “divenir-animale” è il movimento che oltrepassa il soggetto, e lo apre alla relazione, alla contaminazione, alla “molteplicità”:

Il divenire e la molteplicità sono un’unica, una stessa cosa. Una molteplicità non si definisce per i suoi elementi, né per un centro di unificazione o di comprensione. Si definisce per il numero delle sue dimensioni, non si divide, non perde o non acquista alcuna dimensione senza cambiare natura. E, poiché le variazioni delle sue dimensioni le sono immanenti, è lo stesso dire che ogni molteplicità è già composta da termini eterogenei in simbiosi o che non cessa di trasformarsi in altre molteplicità in successione, secondo le sue soglie e le sue porte.[11]

Può esserci immanenza solo se i singoli corpi che si concatenano in un “divenire” o in una “molteplicità” sono aperti alla possibilità di “cambiare natura”. Il soggetto invece è impaurito, sempre sulla difensiva, ché da ogni dove arrivano minacce alla sua integrità, alla sua autonomia e alle sue proprietà (naturalmente private). Il “divenir-animale”, invece, promuove il movimento contrario: “Fate rizoma, ma non sapete con che cosa potete fare rizoma, quale stelo sotterraneo farà effettivamente rizoma o farà divenire, farà popolazione nel vostro deserto. Sperimentate”.[12] Il soggetto vive in un “deserto”, di relazioni, di contatti, un deserto ben recintato e difeso, peraltro garantito dalla Legge e dallo Stato; il “divenir-animale” non sa che farsene di questi confini, come un gatto che fila via sui tetti, uno scarafaggio che corre lungo i muri della cucina, o come – lo vedremo fra poco in Kierkegaard – l’uccello che vola nel cielo infinito: “Se il divenir-animale assume la forma della tentazione […], dipende dal fatto che si associa nelle sue origini così come nella sua impresa a una rottura con le istituzioni centrali, costituite o che cercano di costituirsi”.[13] Far collassare il soggetto, per costruire un corpo in grado di “fare rizoma” con il resto della natura, “cosicché ogni individuo è una molteplicità infinita, e tutta la Natura è una molteplicità di molteplicità”.[14]

 

3. Linguaggio e trascendenza

Una lingua non è un mezzo di comunicazione. Le api comunicano tra loro dove sia un fiore ricco di nettare verso cui volare: nella loro danza comunicativa a ogni oggetto pertinente – come appunto un fiore – corrisponde un segnale, e viceversa.[15] Non c’è menzogna, o equivoco, in questo sistema di comunicazione. Non c’è dubbio o incertezza nel mondo mentale di un’ape (se non locale e circoscritta). Un segnale della danza delle api può essere considerato come un prolungamento del fiore nel cervello di un’ape, e viceversa, il fiore è l’estrema propaggine del suo corpo. Il corpo di un’ape arriva fin dove ci sono i fiori da cui è attratta, così come il campo vitale dei fiori si estende fin dentro l’alveare.[16] Un segnale di un codice comunicativo animale non può esistere senza l’oggetto a cui è attaccato (in fondo si potrebbe anche considerare la danza comunicativa delle api come un mezzo segnico che usa un fiore per comunicare con un altro fiore, e così arrivare a impollinarlo).

In questo senso non si pone il problema della verità o della falsità per questi segnali: dal momento che non possono comparire senza la contemporanea presenza dell’oggetto a cui si riferiscono, questi segnali non sono veri, perché non potrebbero nemmeno essere falsi. Le api non sono sincere, perché non potrebbero nemmeno essere insincere. È l’equivoco, al contrario, il carattere principale del linguaggio (umano).[17] Un enunciato linguistico non presuppone l’esistenza di qualcosa nel mondo che gli corrisponda. La lingua introduce nel mondo entità che sono soltanto linguistiche, cioè che “esistono” solo perché esistono le parole che le incarnano: “Il linguaggio non si limita ad andare da un primo a un secondo, da qualcuno che ha visto a qualcuno che non ha visto [come appunto nelle api], ma va necessariamente da un secondo a un terzo, nessuno dei quali ha visto”.[18] Mentre la danza comunicativa delle api è una trasformazione del fiore in segno prima e alveare poi (e viceversa), un enunciato linguistico istituisce un mondo staccato e autonomo rispetto a quello del corpo. È questa la natura peculiare della lingua, dividere in due l’esperienza corporea, creare “indeterminatezza [che] deriva proprio da questo ambivalente vantaggio dell’uomo, il poter parlare”.[19] Prendere la parola significa esattamente prendere distanza dal corpo e dal mondo. Fra queste entità ne esiste una, in particolare, che introduce una scissione radicale nel corpo umano, la parola “io”.[20] Il corpo che dice “io” sta letteralmente dividendosi in due parti: una che agisce e vive la vita di ogni corpo vivente, e un’altra che dall’esterno lo osserva e lo giudica.[21]

La trascendenza appare nella vita del corpo quando questo diventa parlante: parlare (e non comunicare) significa che la pienezza del reale, quella dell’unico flusso vitale del fiore e dell’ape inebriata dal profumo del suo nettare, si spezza. Ora fra il corpo e il fiore si frappone la parola, che è allo stesso tempo un terzo che media fra i primi due, ma anche un diaframma che li allontana: “Il linguaggio”, dice Lacan nel Seminario xxiii, “è legato a qualcosa che fa buco nel reale […] è con questa funzione di buco che il linguaggio opera la sua presa sul reale”.[22] Il corpo, dicendo “io”, viene gettato nella temporalità cronologica: il momento in cui dice “io” è ora, e quindi con quello stesso gesto linguistico spezza anche la durata, perché se c’è un ora ci sarà anche un prima e un dopo (non c’è orologio senza linguaggio, e viceversa). Il corpo che dice “io” è qui, ma questo stesso gesto recide d’un colpo i legami infiniti e sottili che lo connettevano con ciò che è lì e là. La parola “io” decentra il corpo da se stesso, lo tira via da sé, e lo getta lontano, in un altro tempo e in un altro spazio.

Può sperare, ad esempio, solo un corpo che non coincide con se stesso, un corpo che in carne e ossa è qui e ora, e tuttavia, con il suo fantasmatico “io” è anche altrove, nel futuro, o nel passato se è rimpianto quello che sta provando. Non che speranza o rimpianto non entrino nella vita di un gatto, è che si fondono nell’unico flusso della sua esperienza; con il linguaggio l’animale che parla può isolare questi stati d’animo, può pensarli indipendentemente dal flusso, li può appunto nominare.[23] È tutto un altro mondo quello che adesso viene a “esistere”, che tanto meno sembra materiale tanto più è attraente e irresistibile: “io” è lì che vuole vivere, e a farne le spese è il “suo” corpo. “L’illusione della trascendenza”[24] entra così nella vita dell’animale che parla. È per questo legame costitutivo fra linguaggio e trascendenza che il movimento verso l’immanenza non può che cominciare facendo i conti con il linguaggio, solo così, infatti, sarà possibile liberarsi del “soggetto” – il principale ostacolo sulla strada dell’immanenza – cioè dell’“abitudine di dire Io”.[25]

 

4. Silenzio e parola d’ordine

“Impariamo dal giglio e dall’uccello, quali maestri,” scrive Kierkegaard, “il silenzio, impariamo a tacere. Infatti è senz’altro il parlare che distingue l’uomo dall’animale, e […] ancor più dal giglio.”[26] Se è il linguaggio il mezzo che si frappone fra il corpo e l’immanenza, il primo passo da compiere sarà allora mettere fra parentesi il linguaggio, ed ecco allora il silenzio. Non il silenzio linguisticizzato di chi tace per alludere a una parola non detta ma implicita, e nemmeno il silenzio di chi resta senza parole. Questi silenzi sono ancora del tutto dentro l’ambito del linguaggio, si tratta di un silenzio eloquente, o di una parola silenziosa. Quello a cui esorta Kierkegaard è invece il silenzio originario del giglio, che non ha mai parlato né mai ha desiderato parlare, perché il giglio non desidera nulla. È il silenzio dell’uccello nel cielo, che comunica con i suoi simili, come l’ape con le sue compagne nell’alveare, senza però entrare nel gioco di rimandi e di equivoci, e quindi aspettative e rimorsi, del linguaggio. È quindi un silenzio radicale, affatto esterno al linguaggio.

Che significa il silenzio, la rinuncia alla parola? È “io”, come “abitudine” e come automatismo della coscienza, che impedisce al corpo dell’animale che parla di stare al mondo e basta, il semplice stare al mondo, come succede al giglio e all’uccello nel cielo. Finché c’è “io” non ci può essere corpo, e finché non c’è semplicemente corpo non può esserci nemmeno mondo, pienezza della vita, immanenza. Perché “io” è sempre preso dall’impegno (dal dovere) di fare, di cambiare le cose, di prendere posizione rispetto a se stesso. La mossa del silenzio, la prima e fondamentale mossa sulla via dell’immanenza, rovescia del tutto questa condizione: il giglio non fa nulla, vive la “sua” vita, ora piena (l’estate, il sole, le api) ora povera (l’inverno, il freddo, la morte) semplicemente assecondando il flusso della vita:

Ma allora quello che devo fare è in un certo senso nulla? Sì, proprio così, in un certo senso è nulla; tu devi rendere te stesso nulla nel senso più profondo, diventare nulla davanti a Dio, imparare a tacere. In questo silenzio sta quell’inizio che è: cercare prima il regno di Dio.[27]

Il “regno di Dio” è quello che Deleuze e Guattari chiamano “piano di immanenza”, che è unico e unitario “in quanto Pensiero e in quanto Natura, in quanto Physis e in quanto Noûs”.[28] Perché il piano di immanenza possa essere, “io” dovrà rendere se “stesso nulla”. Ora, questo “nulla” non è propriamente quello del giglio e dell’uccello, perché loro non hanno mai conosciuto “io” e trascendenza; il “regno di Dio” non è un passato originario da ripristinare, al contrario, è un compito, è l’unico e ultimo compito che abbia “io” (ultimo perché dopo non ci sarà più alcun “io”): “L’inizio non è ciò con cui si inizia, ma ciò a cui si giunge; e vi si giunge a ritroso. L’inizio è questa arte di diventare silenziosi, perché non è arte essere silenziosi come lo è la natura”.[29] Diventare silenziosi, ossia rinunciare a ciò che rende speciale il corpo dell’animale che parla, l’unico corpo che presuntuosamente può dire di sé “io”. O “io” (e quindi linguaggio) o immanenza.

Che significa, infatti, “io”? Il caso del giglio lo mostra bene, anche se al contrario. Il giglio partecipa della vita che gli è capitata, del suolo in cui è cresciuto, che non ha scelto, né avrebbe potuto scegliere. Non lo ha scelto perché solo “io” sceglie, solo “io” cioè è in grado di fermare il flusso della vita, e tirarsene fuori, e collocare se stesso da un’altra parte. Il giglio allora non sceglie non perché gli sia stato impedito di scegliere, piuttosto perché non c’è nessun “io” che avrebbe avuto desiderio di scegliere un posto anziché un altro. Sceglie chi desidera qualcosa, ma desidera solo chi è separato da se stesso, e vive la propria condizione come mancante di qualcos’altro; solo l’animale che vive nella trascendenza desidera scegliere. In questo senso sarebbe sbagliato definire il giglio come un vivente privo di libertà; nessuno costringe il giglio a vivere la vita che vive, semplicemente vive la vita che gli è capitata di vivere. Per vivere ha bisogno di acqua e sole, e allora “cerca” con le radici il suolo più umido, così come “cerca” con le foglie le zone più luminose del cielo. Il giglio non sceglie perché non è insoddisfatto della sua vita; è la vita che è, questa è l’immanenza.

Al contrario “io” è tutta una fatica di scelte e desideri, di rimorsi e rancori, di speranze e delusioni. La posta in gioco del silenzio, allora, è il linguaggio, e attraverso di esso la più fantastica di tutte le creature linguistiche, “io”: “Poter parlare è il vantaggio dell’uomo sull’animale; ma, nel rapporto con Dio, questo può facilmente corrompere l’uomo che può parlare: il voler parlare”.[30] Non è tanto il parlare il problema (se il parlare fosse come la danza comunicativa delle api, non ci sarebbe nessun problema), bensì il “voler parlare”. È la volontà, è “io” il problema. Ecco allora tutto il valore del silenzio, del “diventare silenziosi”, cioè del gesto paradossale di un “io” che vuole recedere dalla propria condizione di soggetto. Chi imparò dal giglio nel campo e dagli uccelli nel cielo, allora,

…divenne silenzioso, anzi, cosa che se possibile si oppone al parlare ancora più del silenzio, divenne uno che ascolta. Credeva che pregare fosse parlare; imparò che pregare è non solo tacere, ma ascoltare. Ed è così. Pregare non è ascoltare se stessi parlare, ma giungere a tacere e restare in silenzio, nell’attesa, fino a che chi prega non arrivi ad ascoltare Dio.[31]

Ma ascoltare che cosa? Non un’altra parola, tantomeno la parola di Dio, ché non parla così come non parla il giglio e non parlano gli uccelli. Ascoltare qui significa partecipare senza domande (senza desideri né rimproveri) al movimento intrinseco della vita. Ascoltare la vita che si vive, e partecipare senza chiedersi perché a questo stesso movimento. Coincidere con le articolazioni immanenti della vita, essere quella vita. Ascoltare significa allora partecipare alla “Natura”:

Il piano di consistenza della Natura è come un’immensa Macchina astratta, tuttavia reale e individuale, i cui pezzi sono i concatenamenti o gli individui diversi ciascuno dei quali raggruppa un’infinità di particelle sotto un’infinità di rapporti più o meno composti. C’è dunque unità di un piano di natura, che vale ugualmente per gli esseri inanimati e per quelli animati, per gli artificiali e i naturali. […] Non parliamo qui dell’unità della sostanza, ma dell’infinità delle modificazioni, che sono le une parti delle altre su questo unico e medesimo piano di vita.[32]

La condizione per partecipare a “questo unico e medesimo piano di vita” è il silenzio, pertanto la rinuncia alla posizione di “io”. E “questo silenzio lo puoi imparare dal giglio e dall’uccello”.[33] Finché il corpo dice “io” continuerà a lacerare il “piano di vita” unitario. Il giglio, l’uccello, non sono esempi che qualcuno dovrebbe seguire; sono possibili forme di vita quelle che qui Kierkegaard propone. Il “divenir-animale” è questo stesso movimento, perché “il divenire non produce nient’altro che se stesso”,[34] perché altrimenti non sarebbe il movimento dell’immanenza. Il punto non è vivere come un giglio, o come un uccello, è mettere in movimento la potenza del corpo di essere quel giglio, quell’uccello (senza smettere di essere un corpo umano, il corpo di un animale che una volta diceva di sé di essere un “io”): “Il divenir-animale dell’uomo è reale, benché non sia reale l’animale che egli diviene”,[35] appunto perché il corpo è sempre quello di un Homo sapiens. Il “divenir-animale” è il movimento di un “io” che cerca di liberarsi di quello stesso “io”. Ecco perché solo l’umano può cercare l’immanenza, perché solo “io” ha conosciuto la separatezza dal corpo e la trascendenza. Arrivare (e non tornare) al corpo, è questo il senso del “divenir-animale”, e quindi a “questo unico e medesimo piano di vita”:

L’uccello tace e attende: sa, o meglio, crede fermamente che tutto avverrà a suo tempo, perciò l’uccello attende. Ma sa pure che non gli spetta sapere il giorno e l’ora, perciò tace. Avverrà a tempo opportuno, dice l’uccello, anzi no, non dice così l’uccello, tace. Ma il suo silenzio parla, e dice che lui ci crede e, dal momento che ci crede, tace e attende. Quando poi l’istante arriva, il silenzioso uccello comprende che quello è l’istante; e lo mette a frutto e mai è stato deluso.[36]

Non è mai stato deluso perché nulla si aspettava, l’uccello. Quello che gli succede riempie tutta la sua esistenza, senza residui. Questa è la pienezza dell’istante. Quello di “istante” è un altro modo di definire il piano di immanenza, un momento non cronologico in cui tutto è contemporaneo, senza passato né futuro (e per questa ragione “l’istante è solo nel silenzio”,[37] perché al contrario il linguaggio è trascendenza, è orologio); in questo senso l’istante è senza tempo, ed è molto vicino a quello che Deleuze e Guattari chiamano “ecceità”, cioè delle “individuazioni senza soggetto”,[38] come appunto sono il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.

È quindi il linguaggio il principale ostacolo lungo la via dell’immanenza, ma anche l’unico modo – rovesciandolo nel silenzio – per intraprendere questo stesso percorso: “L’unità elementare del linguaggio”, scrivono Deleuze e Guattari, è infatti “la parola d’ordine”.[39] Il linguaggio non comunica, come la danza profumata delle api, ordina, comanda, istruisce: “Lo si può vedere nei comunicati della polizia o del governo, che si curano ben poco di verosimiglianza o di veridicità, ma dicono a chiare lettere quel che dev’essere rispettato e tenuto a mente”.[40] Il linguaggio sembra avere un unico scopo, controllare e regolarizzare il flusso dell’immanenza: “Le parole d’ordine segnano arresti, composizioni stratificate, organizzate”.[41] Per questa ragione per ritrovare il movimento dell’immanenza occorre rinunciare al linguaggio, almeno a quello che è un “contrassegno di potere”;[42] ogni parola, ogni enunciato, è una “parola d’ordine”, cioè un contenitore che chiude e isola una porzione di movimento, la tira fuori dalle rete di connessioni in cui vive, la trasforma in una sostanza, in una cosa. Il linguaggio in quanto “parola d’ordine” si frappone alla vita, e rappresenta il suo contrario, una istanza di morte:[43] “Il linguaggio non è la vita, dà ordini alla vita; la vita non parla, ascolta e attende. In ogni parola d’ordine, pure in quella di un padre a suo figlio, c’è una piccola sentenza di morte – un Verdetto, diceva Kafka”.[44] Ecco allora perché il primo e fondamentale momento del percorso di Kierkegaard verso l’immanenza sia il silenzio, che è ancora nell’orbita del linguaggio, e tuttavia non è più una “sentenza di morte”,[45] bensì una specie di parola “lasciapassare”;[46] perché per l’immanenza si deve passare per il linguaggio, e quindi occorre “trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio”.[47] Trasformare il linguaggio in un “passaggio”, perché “la vita” – come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo – “non parla, ascolta e attende”; ecco il perché del silenzio.

 

5. Obbedienza e divenir-erba

Che succede quando non c’è più “io” a ostacolare il movimento verso il piano di immanenza? La risposta di Kierkegaard è sorprendente, l’obbedienza. È una risposta sorprendente, perché l’obbedienza presuppone un “io” che obbedisca, presuppone una volontà da piegare, una coscienza che riconosca la giustezza del comando che impone l’obbedienza (in questo senso un cane non obbedisce al padrone, perché non riconosce la giustezza del suo comando; la sua non è obbedienza, è una presa d’atto che il mondo va così, e non ci si può fare niente, se vuole uscire deve “accettare” la museruola). E, tuttavia, proprio il fatto che Kierkegaard parli di obbedienza dopo il momento del silenzio permette di capire che tipo di obbedienza sia quella a cui sta pensando. Un’obbedienza, come vedremo, che in questo senso particolare ritroveremo proprio nella nozione di “divenir-animale”, che poi non è che un caso particolare di divenire, di accedere all’immanenza: “Il divenir-animale è solo un caso tra altri. Ci troviamo presi in segmenti di divenire […]: divenire-donna, divenire-bambino; divenir-animale, vegetale o minerale; divenire-molecolari di ogni specie, divenire-particelle”.[48]

Intanto, cos’è questa obbedienza? “Nella natura,” scrive Kierkegaard, “tutto è obbedienza, incondizionata obbedienza.”[49] Il giglio è obbediente, l’uccello nel cielo è obbediente. Ma non nel senso che obbedisce al comando di qualcuno, della natura come di Dio. Il giglio è obbediente perché “ama Dio”, ossia si lega “a lui incondizionatamente e in ogni cosa”.[50] Un’obbedienza intransitiva, il giglio obbedisce, punto. Non obbedisce a un ordine, a una volontà esterna che gli impone di vivere così e così: il giglio obbedisce, la sua vita incarna l’obbedienza. Un’obbedienza senza comando, senza ordine, senza trascendenza. Il giglio vive la vita che vive con tutta la pienezza che gli è possibile, senza risparmiarsi, senza rimpianti né speranze. Obbedienza significa vivere la vita dell’“istante”, e solo quella. Questo è l’amore di Dio:

Se il posto assegnato al giglio è il più infelice possibile, tanto che è facile prevedere che sarà del tutto superfluo per tutta la vita, e che non verrà notato da una sola persona che possa gioirne; se il posto e l’ambiente sono – sì, ho dimenticato che è del giglio che parlo – sono così “disperatamente” infelici, che non solo non lo si cerca, ma lo si evita: l’obbediente giglio accetta con obbedienza la propria condizione e sboccia in tutta la sua bellezza. […] “Io non ho potuto determinare da me il mio posto e la mia condizione, questo non è neppure lontanamente affar mio; che io stia dove sto è la volontà di Dio.” Così pensa il giglio.[51]

Il giglio obbedisce, ossia il giglio vive la vita, fino in fondo, con tutta la forza e la potenza che gli è possibile, e vive la vita che vive, non un’altra che avrebbe potuto vivere, vive proprio la vita che non ha scelto, perché comunque non avrebbe scelto una vita diversa. L’obbedienza di cui parla Kierkegaard è una piena e radicale e sensuale obbedienza alla vita. Il giglio è obbediente perché il giglio è l’immanenza della vita. In questo senso è un’obbedienza senza volontà, senza sforzo, senza fatica. Il giglio, ossia il corpo che non dice “io”, “comprende solo una cosa, ma la comprende incondizionatamente: che tutto quel che gli capita lo riguarda non propriamente, ma solo impropriamente, o, con più esattezza, che quel che propriamente lo riguarda, e per di più incondizionatamente, è l’accettare tutto questo, nell’incondizionata obbedienza a Dio”.[52] Un’obbedienza impropria, un’obbedienza cioè che non lo riguarda in quanto “io”, come un comando rivolto proprio a qualcuno di particolare. L’obbedienza del giglio è possibile solo a condizione di liberarsi di “io”, perché finché c’è “io” questa obbedienza incondizionata, semplice, assoluta non sarebbe stata possibile. Il giglio, se potesse parlare, direbbe solo questo: “Non posso far altro, non so fare che così”.[53]

Non c’è merito nel fare quel che non si potrebbe non fare, ecco perché l’obbedienza del giglio è impropria e impersonale. La caratteristica fondamentale di questa obbedienza è che è incondizionata. Non passa cioè per il dubbio e la verifica, l’esitazione e la conferma: è da subito e per sempre obbedienza, ossia radicale aderenza alla vita. In questa incondizionatezza si ritrovano compresse le caratteristiche principali di ogni divenire secondo Deleuze e Guattari: ogni divenire è infatti un movimento “impercettibile, indiscernibile, impersonale”.[54] Senza “io” non c’è alcun bisogno di sottolineare la propria figura, al contrario, il divenire annulla le peculiarità soggettive a favore delle “individuazioni senza soggetto”: “Ogni divenire è un divenire-minoritario”.[55] Questo significa diventare sempre meno evidenti, entrare in relazione con altri divenire, divenire-altro appunto; ossia, divenire impercettibile, diventare ambiente, spazio e luce, semplice vita: finalmente “si arriva… a essere veramente come tutti”.[56] Una “ecceità” è impersonale, non è “io” o “tu”, è un “essi” che non implica “alcuna indeterminazione”, al contrario, riconduce a “un concatenamento collettivo”.[57] E se l’esempio di questa condizione per Kierkegaard è il giglio, per Deleuze e Guattari è – e la somiglianza non sorprenderà – l’erba:

Ecco il legame fra impercettibile, indiscernibile, impersonale, le tre virtù. Ridursi a una linea astratta, un tratto, per trovare la propria zona di indiscernibilità con altri tratti ed entrare così nell’ecceità come nell’impersonalità del creatore. Allora, siamo come l’erba: abbiamo fatto della gente, di tutta la gente un divenire, poiché abbiamo costruito un mondo di comunicazione inevitabile, poiché abbiamo soppresso in noi tutto quel che ci impediva di scivolare tra le cose, di crescere nel mezzo delle cose. Abbiamo combinato il “tutto”, l’articolo indefinito, l’infinito-divenire, e il nome proprio al quale ci si riduce. Saturare, eliminare, mettere tutto.[58]

 

6. La gioia e la musica

Prima il silenzio, poi – una volta liberati dalla “parola d’ordine” del linguaggio che è sempre “sentenza di morte” – c’è l’obbedienza, che tuttavia è il contrario di quella imposta dal comando del potere. L’obbedienza di Kierkegaard è il divenir-erba di Deleuze e Guattari, è l’essere in ascolto della vita, è l’essere diventati tutt’uno con il “piano di immanenza”. A questo punto si apre la possibilità in cui collassano le distinzioni fra soggettivo e oggettivo, fra interno ed esterno, fra etica ed estetica, di “essere la gioia”.[59] Non di provare gioia, perché è solo “io” che ha stati d’animo, che prova qualcosa. Provare la gioia significa appunto che c’è un diaframma fra il corpo e la gioia, significa che qui c’è ancora separatezza e trascendenza:

E mai il giglio e l’uccello sono in imbarazzo come talvolta capita a un maestro umano, il cui insegnamento resta scritto sulla carta o giace nella sua biblioteca, in breve è altrove e non sta sempre con lui. No, dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre: essa è veramente nel giglio e nell’uccello.[60]

Una gioia, intanto, che arriva alla fine del movimento di allontanamento dalla trascendenza: è allora una “semplicità” che è una “originarietà acquisita”.[61] Un corpo divenuto semplicemente corpo, e che per essere finalmente quello che è sempre stato – un corpo appunto – deve prima passare attraverso la “parola d’ordine”, “io”, la trascendenza, e poi il silenzio e l’obbedienza. Ecco allora la gioia, l’essere gioia:

Ma che cos’è la gioia, che cos’è essere gioiosi? È essere davvero presenti a se stessi. Ma l’essere davvero presenti a se stessi è questo “oggi”, è essere oggi, essere davvero oggi. Quanto più è vero che sei oggi, quanto più sei completamente presente a te stesso nell’essere oggi, tanto più il giorno dell’infelicità, il domani, non esiste per te. La gioia è il tempo presente con tutta l’enfasi su: il tempo presente. […] Per questo il giglio e l’uccello sono la gioia, perché con il silenzio e l’incondizionata obbedienza sono fino in fondo presenti a loro stessi nell’essere oggi.[62]

L’oggi dell’essere oggi non è però l’oggi che si contrappone a ieri e a domani; non è un oggi cronologico, inchiodato dentro un calendario. È un oggi senza tempo e fuori dal tempo, pur partecipando del movimento infinito del piano di immanenza. Dal momento che il giglio e l’uccello non hanno le speranze e le preoccupazioni di “io”, possono semplicemente partecipare alla vita, abbandonarsi alla vita, e così – come il filo d’erba nel prato – essere “incondizionatamente” quello che sono, nel preciso momento – in un oggi che non diventa mai domani – in cui lo stanno vivendo. La gioia allora non è stato psicologico, non è una condizione soggettiva o interna; nella gioia il giglio e l’uccello sono l’intera natura. La “gioia” di Kierkegaard è il “piano di consistenza” di Deleuze e Guattari:

Il piano di consistenza è l’intersezione di tutte le forme concrete. Così tutti i divenire […] si inscrivono su questo piano di consistenza, l’ultima Porta, dove trovano una via d’uscita. […] Il solo problema è: un divenire arriva fin là? Una molteplicità può appiattire così tutte le dimensioni che conserva, come un fiore serberebbe intatta la sua vitalità perfino quando secca? […] Tutto diviene impercettibile, tutto è divenir-impercettibile sul piano di consistenza, ma proprio là l’impercettibile è visto, inteso. È il Planomene o la Rizosfera, il Criterium […]. Seguendo n dimensioni, la si chiama Ipersfera, Meccanosfera. È la figura astratta o, piuttosto, dal momento che non ha forma, la Macchina astratta, di cui ogni concatenamento concreto è una molteplicità, un divenire, un segmento, una vibrazione. Ed essa, la sezione di tutti.[63]

L’essere gioia significa essere “una molteplicità, un divenire, un segmento, una vibrazione”. Il giglio non è più un giglio, come l’uccello non è più un uccello, come oggetti isolati (che solo come cose possono avere un nome, essere individuati da una “parola d’ordine”); “essere davvero oggi” significa essere concatenati con l’intero e infinito movimento del piano di consistenza. In questo senso l’immanenza finalmente annulla ogni dualismo (e perciò quella di immanenza è una nozione senza contrario), e c’è solo “una vita, e nient’altro. […] Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, è completa beatitudine”.[64]

Essere gioia non vuol dire scomparire dentro il piano di immanenza, perché è sempre “una vita” quella che partecipa alla “immanenza assoluta”; il modo per intendere in che modo sia ancora possibile parlare di un giglio – sebbene impercettibile, indiscernibile e impersonale – all’interno della Rizosfera è pensare a quello che succede nella musica, che in effetti per Deleuze e Guattari rappresenta il punto d’arrivo di tutti i diversi divenire (qui si vede, ancora una volta, come tutto il pensiero di Deleuze sia segnato da una radicale diffidenza verso il linguaggio, a cui sempre preferisce la musica). Si pensi a una linea musicale: “Una linea di divenire” – una linea musicale, appunto – “non è definita dai punti che essa collega né da quelli che la compongono: al contrario passa tra i punti, cresce solo nel mezzo” (melodia) “e fila in una direzione perpendicolare ai punti che si sono prima distinti, trasversale al rapporto localizzabile tra punti contigui o distanti”[65] (armonia). Da un lato i punti, come il giglio o l’uccello, dall’altro questi punti si concatenano a formare una linea di divenire, in cui svaniscono come punti isolati, senza i quali tuttavia quella stessa linea non potrebbe essere. In questo senso la linea di divenire è tutta e solo “tra” i punti, è l’ondulazione che li attraversa: “Una linea di divenire ha solamente un mezzo”.[66] Il piano di consistenza è allora il divenire musica delle diverse “ecceità” che concatena:

Ora, qual è il problema della musica, qual è il suo contenuto indissociabile dall’espressione sonora? È difficile dirlo, ma è qualcosa come: un bambino muore, un bambino gioca, una donna nasce, una donna muore, arriva un uccello, un uccello se ne va. Vogliamo dire che temi come questi non sono accidentali nella musica […], e ancora meno sono esercizi imitativi, ma qualcosa d’essenziale. Perché un bambino, una donna, un uccello? Perché l’espressione musicale è inseparabile da un divenire-donna, da un divenire-bambino, da un divenir-animale che costituiscono il suo contenuto.[67]

Un uccello arriva, un uccello se ne va (è lo stesso uccello di Kierkegaard); non ha nome, non è importante saperlo, una vita è apparsa, poi è volata via, verso altri concatenamenti, verso altri divenire. Il divenir-animale intende suggerire all’animale che parla di accompagnare proprio questo movimento verso il provare a essere, semplicemente, “una vita”, cioè una “vita di pura immanenza, neutra, al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro. Essenza singolare, una vita…”.[68] Essere qualcosa – una vita, una ecceità, una linea, sono numerosi i modi con cui Deleuze prova a delineare i tratti di questa “singolarizzazione”[69] – senza essere una soggettività, senza essere un “io”.

E questa è la “beatitudine” perché una vita del genere non è più intrappolata nella gabbia della “individuazione”,[70] e può allora partecipare pienamente – “incondizionatamente” come insiste Kierkegaard, non ci sono condizioni per la resa del soggetto – al piano di consistenza, può diventare linea, muoversi liberamente (“al di là del bene e del male”) nei “frat-tempi” e nei “fra-momenti”:[71] perché “la musica non è mai tragica, la musica è gioia”.[72]

 


[1] G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991; trad. di A. De Lorenzis, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 20023, p. 44.

[2] Ivi, p. 27.

[3] Cfr. F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013.

[4] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 65.

[5] G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1980; trad. di G. Passerone, Mille piani, Cooper-Castelvecchi, Roma 2003.

[6] Sul rapporto fra Deleuze e Kierkegaard, cfr. C. Carlisle, Kierkegaard’s Philosophy of Becoming. Movements and Positions, University of New York Press, New York 2005.

[7] S. Kierkegaard, Lilien paa Marken og Fuglen under Himlen. Tre gudelige Taler (1849), in Søren Kierkegaards Skrifter, Gad, København 2006, vol. xi, pp. 5-48; trad. a cura di E. Rocca, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, Donzelli, Roma 20112.

[8] Cfr. A. Cournot, Le “devenir-animal” chez Gilles Deleuze, “Revue d’esthétique”, 40, 2001, pp. 87-91; S. Baker, What Does Becoming-Animal Look Like?, in N. Rothfels (a cura di), Representing Animals, Indiana University Press, Bloomington 2002, pp. 67-97; G. Bruns, Becoming-Animal (Some Simple Ways), “New Literary History”, 4, 2007, pp. 703-720; B. Goetz, L’araignée, le lézard et la tique: Deleuze et Heidegger lecteurs de Uexküll, “le portiQue. Revue de philosophie et sciences humaines”, 20, 2007, pp. 2-13; F. Cimatti, La zecca e l’uomo. Antropologia e linguaggio fra Wittgenstein e Lacan, “Rivista italiana di filosofia del linguaggio”, 2, 2013, pp. 38-52.

[9] Cfr. É. de Fontenay, Le silence des bêtes, la philosophie à l’épreuve de l’animalité, Fayard, Paris 1998.

[10] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 342.

[11] Ivi, p. 354.

[12] Ivi, p. 356.

[13] Ivi, p. 352.

[14] Ivi, p. 360.

[15] Cfr. K. von Frisch, The Dance Language and Orientation of Bees, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1967.

[16] Cfr. D. Boucher (a cura di), The Biology of Mutualism. Ecology and Evolution, Oxford University Press, New York 1985.

[17] Cfr. A. Badiou, B. Cassin, Il n’y a pas de rapport sexuel. Deux leçons sur “L’Étourdit” de Lacan, Fayard, Paris 2010, p. 27.

[18] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 129.

[19] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 41.

[20] Cfr. É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966, vol. I.

[21] Cfr. F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[22] J. Lacan, Le séminaire. Livre xxiii. Le sinthome, Seuil, Paris, 2005; trad. a cura di A. Di Ciaccia, Il Seminario. Libro xxiii. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, pp. 29-30.

[23] Cfr. F. Cimatti, Dentro il corpo, fuori del corpo. La biologia artificiale delle emozioni, “Bollettino filosofico del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, XXIV, 2008, numero monografico: Linguaggio ed emozioni, pp. 37-54.

[24] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 39.

[25] Ivi, p. 38.

[26] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 36.

[27] Ibidem.

[28] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 28.

[29] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., pp. 36-37.

[30] Ivi, p. 37.

[31] Ibidem.

[32] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 360-361.

[33] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 38.

[34] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 341.

[35] Ibidem.

[36] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 39.

[37] Ivi, pp. 39-40.

[38] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 375.

[39] Ivi, p. 127.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, p. 170.

[42] Ivi, p. 128.

[43] Cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2008.

[44] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 128.

[45] Ivi, p. 165.

[46] Ivi, p. 170.

[47] Ibidem.

[48] Ivi, p. 382.

[49] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 50.

[50] Ivi, p. 49.

[51] Ivi, pp. 42-53.

[52] Ivi, p. 55.

[53] Ibidem.

[54] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 392.

[55] Ivi, p. 405.

[56] Ivi, p. 391.

[57] Ivi, p. 373.

[58] Ivi, p. 392.

[59] S. Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, cit., p. 61.

[60] Ibidem.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem.

[63] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 357-358.

[64] G. Deleuze, L’immanence: une vie…, “Philosophie”, 47, 1995, pp. 3-7; trad. L’immanenza: una vita…, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 9.

[65] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 407-408.

[66] Ivi, p. 408.

[67] Ivi, p. 414.

[68] G. Deleuze, L’immanenza: una vita…, cit., pp. 10-11.

[69] Ivi, p. 10.

[70] Ibidem.

[71] Ivi, p. 10.

[72] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 414.

 

2 Responses to Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale”

  1. […] aut aut, rivista di filosofia diretta da Pier Aldo Rovatti. Fondata nel 1951 da Enzo Paci, edita dal Saggiatore, esce a cadenza trimestrale  […]

  2. Verona Emanuele says:

    Gli strumenti sono tanti i nostri sensi li percepiscono con accondiscendenza non si limitano ai vari passaggi assorbiamo cercando anche di trovare l’umana possibilita’ Le parole sono chiare danno l’ entusiasmo di aver trovato la strada e’ comprensivo cio’ che si e’ letto ma e’ cosi’ troppo facile Il silenzio lo adoperiamo tutti in diversi modi forse ancche e soprattutto al proteggersi e a farne l’uso da intenditori ma l’ immanente e’ adesso ora alzandosi dal posto e senza pensieri lasciare che succeda…

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